Quando preme il canto sul nervo
Poesia scelta: Quando preme il canto sul nervo
Autrice: Annalisa Mercurio
Quando preme il canto sul nervo
mi perdo in galassie
al fulcro dei gangli,
in immagini da elidere prima dell’anossia
– immagini invisibili a disanime umane.
Un viaggio salvifico
nella memoria del sangue
l’attesa del morso al frutto dell’Eden,
ed è grazia e condanna
l’universo che m’attraversa
nel tempo di un ’amen’.
A cura di Emanuela Sica
“Non so dire da dove giunga a me la parola. Quella che sento più mia, per assurdo è come se giungesse da un luogo che potrei definire ‘al tempo stesso fuori e dentro me’, un corpo fatto di nervi ossa e sussurri, poi immagini, suoni e il fiato che sembra mancare un attimo prima che tutto sia chiaro.”
È la pressione, la traccia esplorativa della dimensione più intima e umana di chi siamo. Quando il canto, la parola, la potenza evocativa della stessa arriva, come una saetta, a sollecitare non solo il nervo corporale più materiale, quello per intenderci cucito nella carne, insieme a milioni di suoi compagni, ma soprattutto quella serie di gangli cerebrali che aprono atmosfere oniriche alle sinapsi che si rincorrono come lucciole nella notte dei tempi. Allora, prima della fine, prima della mancanza di ossigeno ai tessuti ovvero prima della chiusura definita della vita al mondo dei suoni e delle raffigurazioni, quando la catarsi del corpo prenderà la strada del nulla, ci saranno ancora immagini e scenografie da aprire ed in cui camminare, sentire, percepire, per poi metabolizzare la chiara dimensione, trasparente al resto degli esseri umani, del nostro interiore, del nostro Io (nell’accezione di Es e non Ego e di cui parleremo più avanti) non inteso in senso egoistico ma come casa in cui abitiamo e viviamo per essere ciò che siamo anche in contrapposizione a quello che vogliamo mostrare al resto dell’universo.
Spesso la coscienza dell’Io viene definita “egoismo” in quanto, non appena sorge quel senso soggettivo segue inevitabilmente il senso del mio. Il senso dell’io e delle cose sentite come appartenenti all’io, insieme, costituiscono l’egoismo. Eppure l’ego è visto come una componente naturale degli esseri viventi, il loro centro, io qui la vedrei nell’accezione di “anima” corrispondente al greco kentrom [centro]. L’anima [atta] è considerata infatti il centro dell’essere vivente, il nucleo imprescindibile. Secondo la “visione” buddista le persone comuni non possono perciò sbarazzarsi né prescindere dall’ego ed ecco perché, probabilmente, l’uomo sperimenta senza tregua la dinamica dell’egoismo. Benché sia vero che non è continuamente in atto, si manifesta ogni volta che viene vista una forma, udito un suono, percepito un odore o un contatto, o pensato un pensiero. in ogni manifestazione dell’Io-mio possiamo vedere la globalità della malattia egoistica, indipendentemente dal contatto sensoriale che l’ha innescata. Dalla percezione dell’egoismo poi si passa, anche con violenza, all’egocentrismo: uno stato perturbato che induce false comprensioni, un modello di pensiero incentrato su se stessi senza considerazione per gli altri. Ogni azione è riferita a se stessi. Si è in balia dell’avidità, dell’odio e dell’illusione. Quando si esprime questa dimensione la “malattia” fa un salto esponenziale diventando capace di danneggiare non soltanto noi stessi ma anche gli altri. È proprio questo il più grande pericolo per il mondo. Gli attuali problemi e il disordine esistente sono dovuti all’egocentrismo degli individui e delle fazioni che danno vita a gruppi in conflitto. Il conflitto non viene dal desiderio di lotta ma dalla coazione dell’egocentrismo, perché non si sa come controllarlo. Non sappiamo opporci al suo potere, ed ecco che si instaura la malattia. Il mondo è contagiato dal virus della malattia “egoica” perché nessuno ne conosce la cura. O forse la cura, esiste?
Proviamo a riflettere utilizzando il seguito della poesia. Nel locus in cui “le essenzialità”, in questo caso ci riferiamo alle “vicissitudini” interiori dell’autrice, prendono la coscienza del sé, diventano pavimento, mura, pilastri, tetto, conforto oltreché porte, chiusure rispetto al fuori. È come se si volesse lasciare oltre la soglia di casa quello che all’esterno aleggia e cerca, spesso con insistenza, di entrare. È quello il privato di “immagini” invisibili che non possono essere comprese dalla ragione umana e dal seguente attributo della riflessione razionale. Sono evanescenze leggere che hanno però potenza e una sostanza talmente carmica da essere di nutrimento alla vita, balsamiche carezze per arginare la recrudescenza dell’altro, di colui che non si conosce, dell’ignoto.
La fluidità del vero, legato delicatamente alle parabole emotive, alle sinergie esistenziali che dalla poetessa si liberano nella parola ricercata e sentita come ispirazione e devozione al canto poetico, ci fa trasmigrare in un viaggio che “salva” chiunque voglia essere salvato. La strada è quella che, partendo dal nostro bagaglio emotivo, dalla memoria del vissuto, dai reticoli di storie che crea il sangue che ci scorre nelle vene, si discosti da quella originaria, dal peccato primordiale, e ci conduca alla grazia dell’innocenza. Ma come si può prescindere dal peccato, dalla condanna che giocoforza preme sulle nostre spalle, che modifica la bilancia dei resoconti non al netto ma al lordo dei pentimenti e delle frustrazioni per ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, per quello che avremmo voluto dire e non abbiamo detto, per le innumerevoli domande a cui non abbiamo inteso dare risposta se non il silenzio? Il peccato è la traccia originaria della malattia egoistica, di quella traccia di dolore che parte dal voler essere al di sopra di quel Dio che ha creato il mondo e di decidere la condanna da offrire a questo?
Facciamo un breve passo indietro. La parola Ego deriva dal latino e significa letteralmente “io”, per cui rappresenta generalmente la propria persona e la coscienza di essere chi siamo. Esso costituisce una delle tre topiche con le quali Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, divideva le funzioni psichiche: Es – Ego – Super-Ego. Il primo è l’istinto, il secondo è la dimensione cosciente e razionale della mente, mentre il terzo è l’istanza psichica che controlla il comportamento morale e i doveri. L’Io cercherebbe di bilanciarsi costantemente fra le pressioni del Super Io e quelle dell’Es, che comprende desideri e paure inconsce. Invero Carl Gustav Jung, preferiva parlare del Sé, ovvero della psiche totale, che comprende l’Io-coscienza e l’inconscio. Questa mi pare una dimensione più corretta considerato che non pone L’Ego o Io al centro della psiche, ma lo considera come facente parte di un tutto più vasto, nel quale un ruolo preponderante per il nostro funzionamento psichico è attribuito all’inconscio. Altresì, ego coincide con una ben definita funzione psichica e, secondo ricercatori di neuroscienze, esiste una zona cerebrale espressamente dedicata a questa. Vi è, difatti, una connessione fra l’attività mentale autoreferenziale e la corteccia prefrontale mediale, che si trova nella parte anteriore del lobo frontale. Esisterebbe quindi una zona del cervello che si attiva primariamente quando ci riferiamo al nostro Ego con parole e pensieri. in ogni caso, la naturale sede dell’Ego o io cosciente si trova nella neocorteccia, la zona di più recente sviluppo del cervello. Il cervello antico è invece quello che si “occupa” degli istinti e dei bisogni primari dell’uomo: non sorprende pertanto che la civiltà contemporanea spesso esalti il primo cervello (e quindi la razionalità) a scapito del secondo: per questo si parla spesso di Ipertrofia dell’Io, ovvero dell’importanza eccessiva che spesso si attribuisce a questa finzione, relegando sullo sfondo emozioni e istinti. Ecco spiegato, se non erro, l’inclinazione quasi “neuronale” della poesia, legata a termini come “nervo, gangli, anossia”
Allora, quale sarebbe il gancio a cui ancorare la nostra salvezza? Azzardo, potrebbe essere un ritorno alla “naturalità” alla grazia di quello che eravamo prima che tutto mutasse? Per dirla attraverso la concezione di Pasolini, nell’epilogo del film Edipo Re, che fa tornare il cieco Edipo, dopo i suoi viaggi raminghi, al prato antico dell’infanzia e qui si ferma. “Era tutto qui, quello che egli cercava, nella sua tenebra? È il sublime angolo folto dei salici, argentei, rustici e selvaggi, che lasciano cadere i loro rami sull’acqua che se ne va lenta. Il luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero e riconobbero la madre. La cinepresa ferma su quest’immagine, animata da un inenarrabile vento, esplode il sonoro, “il canto”, la musica del motivo da cui essa trae: quella misteriosa del tempo infantile – il canto d’amore profetico – che è prima e dopo il destino – la fonte sempre sgorgante e infinita di ogni cosa. Così Edipo dice: “O luce, che non vedo più, che prima eri stata in qualche modo mia, ora mi illumini per l’ultima volta. Sono tornato. La vita finisce dove comincia.” Probabilmente è questo il viaggio salvifico da fare, il ritorno al grembo materno, simbolicamente idealizzato, per Pasolini dal prato dell’infanzia, mentre per l’autrice nel giardino dell’Eden, prima del morso maledetto, prima che la corruzione del peccato ci travolgesse, prima che la preghiera si concluda con una volontà che non è la nostra ma legata ad un destino che ci sorpassa nel viaggio. Eppure la parola “amen”, usata nel finale [una parola della lingua aramaica, la lingua che Gesù parlava in famiglia e nella quale pregava privatamente], derivando dal verbo “aman” significa fondamentalmente “essere fermo/stabile”. È quindi un viaggio da fermi quello che compie l’autrice? A mio avviso si, le gambe della poetessa sono saldamente ancorate al presente ma è la mente a muoversi nel solco della memoria. In questa essa ritrova la grazia e la dimensione in cui riesce a salvare la sua emotività colpita dagli eventi che gli ha preservato il destino (ma potrei anche sbagliarmi).
Annalisa Mercurio nasce a Rimini nel 1969. Si diploma nel 1986 al liceo artistico Giovanni da Rimini e contestualmente consegue il diploma di ballerina classica. Dal 2000 vive in Puglia, terra che segna il suo verso tanto quanto lo segnano gesto e corpo. Danzatrice sia classica che contemporanea, sente la scrittura come estensione della propria fisicità. Complice il lockdown, nel 2020 inizia a salvare i propri scritti e ad aprirli al pubblico. E’ tra gli autori della silloge “Tra un fiore colto e l’altro donato” Aletti editore; Pubblicata da: “Le parole di Fedro” (Dicembre 2020, Novembre 2021, Marzo 2022); “Il Lucano Magazine” rubrica Poeti e versi; (Luglio 2021); “Poetarum Silva” (Novembre 2021, Dicembre 2021)
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