Le anime soffiano dai muri
Poesia scelta: Le anime soffiano dai muri
Autore: Umberto Piersanti
le anime soffiano dai muri,
nel solaio
dove c’è le sorbe
e le crepe sono fitte
e scure,
l’odore delle sorbe
dentro la paglia
è d’un giallo chiaro
come quel frutto,
sale fino alle travi
e t’entra dentro,
nessun altro l’uguaglia
neppure il mosto
dentro le botti vecchie
che delle stalle
toglie il tanfo
e fa l’aria buona
ma nella casa scura
del Valubbio,
quella storta e stretta
lì, sì c’è
d’aver paura,
lì dalle crepe
esce come un vento
misto ad urla
e pianti,
in quella casa
non devi
mai entrare
tu l’hai vista
una sera
quella casa,
ma da lontano,
camminavi là sopra,
e poi sei corso via,
da quella casa
bisogna stare lontano
no, non è nebbia
ma fumo,
fumo fitto e amaro
quello che dalla casa
esce
e che t’invade,
ma se nessuno abita
lì dentro
sono le anime
che accendono il fuoco?
nella luce gloriosa
dell’aprile
sei tornato a vedere
quella casa,
verdissimo il campo
lì dinnanzi,
i peri in fiore,
le porte spalancate,
le stanze liete
e poi sul tetto
c’era una colomba
così tenera e chiara
come quella sull’Arca
dopo il diluvio,
quella che il prete
ci racconta
alla dottrina
[Ottobre-novembre 2021 – tratta da “I luoghi persi ed altre poesie inedite”, Crocetti Editore]
A cura di Emanuela Sica
La scenografia del sentire, in apertura di questa poesia, viene costruita con la grazia del soffio. Il movimento è un “andare” areo e trasparente che si dipana e stacca il momento passato dalle mura, pregne di storie e vite, di cui si conosce quel quid che serve a comprenderne il significato anche se, così appare, manca un pezzo per chiudere il cerchio della conoscenza.
E quel qualcosa rimane ad aleggiare sempre avvolto da una coperta di mistero e stupore, mista a paura e smarrimento. Come se da quel “respiro” delle “anime”, che hanno abitato quei luoghi, provenisse non soltanto una narrazione del sé ma quasi una condanna da cui ci si voglia necessariamente allontanare.
La percezione è figlia della consapevolezza di quanto sia potente il passato che prende casa nei luoghi in cui siamo stati protagonisti o visitatori per un determinato periodo della nostra esistenza oppure che abbiamo soltanto scorto in lontananza come un eco che perdura nella sua potenza di richiamo ancestrale e che allunga le mani fino a toccare grappoli di vite sospese ad un passo dal nulla.
Nella rimembranza di una determinata casa, del solaio completamente assuefatto all’odore delle sorbe che venivano poste a maturare nella paglia, si materializza quasi una “smossa fragorosa” all’olfatto fanciullo che riesce a percepire l’intensità di quell’odore capace di sovrastare finanche il mosto nelle botti che, per conto suo, era così potente da eliminare, finanche, il tanfo della stalla e “fa l’aria buona”.
A questa segue un’altra dimensione onirica e direi, per alcuni versi, piena di pesanti arcani presagi che fuoriesce dalle mura di un’altra casa, quella “scura” del “Valubbio” che viene dipinta con i tratti più cupi proprio perché non riesce a comprendere l’enigma di quel passato che orienta, paurosamente, il sentire dell’autore. In essa scalcia il desiderio di un necessario abbandono capace di costruire, con le opportune precauzioni emozionali del caso, un’essenziale distanza. Qui l’aria non è buona, non lo si dice apertamente ma l’intendimento è chiaro, circostanziato dal seguente passaggio: “bisogna stare lontano”.
Un cosciente avvertimento (al figlio?), una richiesta a non inoltrarsi verso quella dimora, oltre quelle mura proprio per non farsi travolgere ed avvolgere dal terrore che si mette in moto dalle crepe da cui esce “un vento misto ad urla e pianti”.
Da questa frase è chiaro il riferimento ad un “abitato” in cui la sofferenza l’ha fatta da padrona rispetto alla serenità che probabilmente non ha mai dimorato in quel perimetro di mura, porte, finestre.
Tuttavia il consapevole bagaglio emotivo che il poeta esplicita nei versi stretti e impilati, come colonne salde a costruire un vissuto che quasi si combatte ma che, allo stesso tempo, si comprende nella sua poderosità, resta comunque un po’ chiuso nell’anima di chi scrive. Come qualcosa da custodire e non svelare per le ripercussioni che la “verità” potrebbe avere.
Questo perché quel luogo è fatto di materia e “immateria” insieme, di pietre e anime entrambe, anche se per spazi temporali diversi, soggiogate dalla distruzione e dal perimento.
Quando parlo di immaterialità mi riferisco alle vesti di personaggi, divenuti fantasmi all’attualità, che hanno avuto i natali in quel luogo, che hanno camminato in quelle stanze, che hanno vissuto e maggiormente sofferto quella casa come locus di esistenza ma anche di sofferenza creando con quello spazio un rapporto quasi simbiotico come se neanche il trapasso le abbia spostate da quei posti e continuino a vivere nonostante siano divenute trasparenti. Sicuramente presenze che la sensibilità introspettiva dell’autore riesce ancora a sentire con la stessa intensità di come quando erano in vita, forse perché da quelle anime nasce un richiamo a non spegnere la memoria e la rimembranza (pur negativa) di quei posti resa ancor più consapevole e forte dalla durezza del ricordo.
A seguire, nella narrazione poetica, si delinea una “visione” duplice di quella dimora così carica di recrudescenti emozioni e paure. Da un lato lo sguardo al “fumo fitto e amaro” che sa di antico dolore, capace di accendere comunque fuochi che generano angoscia e spavento insieme.
Elementi questi capaci di tessere le trame storiche di quei posti con i colori più cupi e pesanti.
Dall’altro il ritorno a quei luoghi nella “luce gloriosa dell’aprile”, di converso alla prepotenza emotiva dell’inverno, come un atto di passaggio alla stagione della luminosità che contrasta, essenzialmente e quasi voracemente, con la immagine sfocata ma greve della stagione fredda, così come freddo e ancestrale è phatos che si genera.
Sicuramente si è tornati in quella casa in un momento primaverile, quando i campi erano verdi, i peri in fiore e sul tetto il simbolo della quiete e della pace era presente come a dire che dimensione di quel posto era mutata verso la redenzione. Come se si fosse trattato di un corpo che, al margine del trapasso, caricatosi dell’agonia misteriosa e ineluttabile della morte, abbia intrapreso successivamente il cammino della resurrezione.
Ci potrebbe essere, in questi versi, un non detto che sento fuoriuscire con una certa prepotenza che mi porta a pensare ad una consistenza, quasi metafora, di questo luogo capace di infiltrarsi nel tessuto connettivo e storico della Pasqua (dal greco “pascha” e a sua volta dall’aramaico “pasah”) che significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”.
È opportuno ricordare che gli Ebrei, in origine, legavano la Pesach all’attività agricola ed era la festa della raccolta dei primissimi frutti della campagna, a cominciare dal frumento, solo in seguito divenne celebrazione annuale della liberazione degli ebrei dalla schiavitù, significato che si aggiunse all’altro, come ricordo della fuga dall’Egitto e del fatto che con il sangue degli agnelli si fossero dipinti gli stipiti delle porte affinché l’angelo sterminatore, come dice la Bibbia, passando da quelle “case”, risparmiasse i primogeniti. Ancora oggi, la cena pasquale presso gli Ebrei si svolge secondo un preciso ordine detto Seder. Ci si nutre di cibi amari per ricordare l’amarezza della schiavitù egiziana e lo stupore della libertà ritrovata. Per celebrare la Pasqua gli israeliti al tempo di Gesù ogni anno si recavano a Gerusalemme. Anch’egli vi si recava. La sua morte avvenne, infatti, in occasione della pasqua ebraica. Egli per i cristiani è l’agnello pasquale che risparmia dalla morte, il pane nuovo che rende nuovi (cfr 1Cor 5,7-8).
E forse è questo il “passaggio” da una “casa” carica di oppressione, angustia, inquietudine, malessere e incertezza ad una “densa” di vita, nell’accezione più simbolica possibile come quella legata alla fioritura delle gemme in primavera che poi portano i frutti sull’albero, prima spoglio durante l’inverno e carico di assenze e poi magicamente ricondotto dal caldo e dalla luce alla vita generativa.
Casa come corporalità egoica? Come esistenza soggettiva che muta nella sua accezione spirituale e si evolve a cosa nuova?
Chissà. Sicuramente è un azzardo fare questa considerazione eppure dall’acquisizione dei versi, dalla metabolizzazione della parola che è fluida e pregnante di significato, carica di elementi naturali, di richiami alla terra e alla gente di quella terra, non sono riuscita a contenere la divagazione del mio animo che ha letto, tra le righe, anche una parte del silenzio.
A volte c’è nella poesia una parte di celato che, come è avvenuto in questo caso, pretende di essere portato alla luce anche se gli appigli per la riemersione sono davvero pochi. Considero questa poesia come una sorta di “Giano Bifronte”. Come suggerisce il nome latino, Giano (Ianus) è il dio del passaggio (che si compie, in origine, attraverso una porta, in latino ianua); presiede infatti a tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e immateriali, come le soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco, ma anche l’inizio di una nuova impresa, della vita umana, della vita economica, del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi, del mondo, dell’umanità (viene infatti chiamato Consivio, cioè propagatore del genere umano, che viene seminato per opera sua), della civiltà, delle istituzioni.
Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che “Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l’essenza dell’acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell’aria, leggera e tendente a sfuggire verso l’alto, e che fu l’immane forza del cielo a tenere legate le due forze contrastanti”. Settimio Sereno lo chiama “principio degli dèi e acuto seminatore di cose“.
Anche Sant’Agostino nel suo De Civitate Dei ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio competa “omnium initiorum potestatem”.
E dunque prendendo spunto dalla simbologia della figura di Giano da un lato si materializza il volto della casa come centro (statico) del (nostro?) passato, dall’altro, invece, come centro (fluido) della (nostra?) rinascita. Al di là dei luoghi dell’infanzia, che sempre restano custoditi nei nostri pensieri, legati ai sensi della vita lì trascorsa, la casa è prima “chiusa” (asfissiante quasi) e piena di nebbiose presenze spettrali…poi si apre. Ed è così che dalle “porte spalancate” e dalle “stanze liete” sembra fuoriuscire non più dolore ma liberazione da quel male, come se un diluvio universale fosse sceso a lavare la materia umana ed esistenziale di quel luogo e l’avesse mondata dei suoi peccati e quindi, appunto, rinascita.
Umberto Piersanti è nato ad Urbino nel 1941 e nella Università della sua città insegna Sociologia della Letteratura. Le sue raccolte poetiche sono La breve stagione (Quaderni di Ad Libitum, Urbino, 1967), Il tempo differente (Sciascia, Caltanissetta- Roma, 1974), L’urlo della mente (Vallecchi, Firenze, 1977), Nascere nel ’40 (Shakespeare and Company, Milano, 1981), Passaggio di sequenza (Cappelli, Bologna, 1986), I luoghi persi (Einaudi, Torino, 1994), Nel tempo che precede (Einaudi, Torino, 2002), Los lugares perdidos / I luoghi persi (Contrapunto (sial), 2011) Les lieux perdus / I luoghi persi, traduzione Monique Baccelli (Harmattan, 2014) Tierra y mito (Uniediciones/Samuele Editore, trad. Antonio Nazzaro, 2019), L’albero delle nebbie (Einaudi, Torino, 2008) che ha vinto i seguenti premi: Premio Pavese Città di Chieri, Premio San Pellegrino, Premio Giovanni Pascoli, Premio Tronto, Premio Mario Luzi, Premio Alfonso Gatto, Premio Città di Marineo. Nel 1999 per I quaderni del battello ebbro (Porretta Terme, 1999) è uscita l’antologia Per tempi e luoghi curata da Manuel Cohen che ha anche scritto il saggio introduttivo. Il suo libro di poesie più recente è Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos, 2015), finalista vincitore al Premio Dessì 2015 e vincitore dei seguenti premi: Premio Montefeltro 2015, Premio Pontedilegno 2016, Premio Tirinnanzi 2016, Premio L’Onor D’Agobbio 2016.” E’ stato tradotto sia in francese, con il titolo Les lieux perdus, sia in lingua rumena, con il titolo In alt timp, in alt loc. Autore di quattro romanzi, L’uomo delle Cesane (Camunia, Milano, 1994), L’estate dell’altro millennio (Marsilio, Venezia, 2001), Olimpo (Avagliano, 2006) e Cupo tempo gentile (Marcos y Marcos, 2012), di due opere di critica – L’ambigua presenza (Bulzoni, Roma, 1980) e Sul limite d’ombra (Cappelli, Bologna, 1989), Anime perse (Marcos y Marcos, 2018). Ha curato insieme a Fabio Doplicher l’antologia di poesia italiana del secondo novecento Il pensiero, il corpo (Quaderni di Stilb, Roma, 1986). Ha realizzato un lungometraggio, L’età breve (1969-70), tre film-poemi (Sulle Cesane, 1982, Un’altra estate, Ritorno d’autunno, 1988), e quattro “rappresentazioni visive” su altrettanti poeti per la televisione. Le sue poesie sono apparse sulle principali riviste italiane e straniere come “Nuovi Argomenti”, “Paragone”, “il verri”, “Poesia”, “Poetry” etc. In Spagna, nel 1989, presso l’editore Los Libros de la Frontera, collana El Bardo, è uscita l’antologia poetica El tiempo diferente (testo italiano a fronte, traduzione di Carlo Frabetti). Un’altra antologia tradotta da Emanuel di Pasquale è stata pubblicata negli Stati Uniti con il titolo Selected Poems 1967-1994 (Gradiva Publications – Stony Brook, New York, 2002). È presente anche in numerose antologie italiane e straniere e tra i premi vinti ricordiamo il Camaiore, il Penne, il Caput Gauri, l’Insula Romana, il Mastronardi, il Piccoli, il Frascati. Tre testi filmici L’età breve, Nel dopostoria e Sulle Cesane insieme a numerosi interventi sulla sua opera cinematografica, sono usciti nel volume Cinema e poesia (Cappelli, Bologna, 1985) a cura di Gualtiero De Santi. Attualmente dirige la rivista Pelagos. [Biografia estratta dal suo sito http://www.umbertopiersanti.com/bio.php]
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