Nessuno è libero in una guerra

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Emanuela Sica.

– di Emanuela Sica –
[Illustrazione a cura di Michele Gizzo]

Nessuno è libero in una guerra.
Non è libero il soldato che va a morire per ordine del superiore.
Non è libero chi è costretto a imbracciare un fucile per difendersi da quel soldato.
Non è libero il civile che muore per mano di quel soldato.

La Libertà è oramai agonizzante sul terreno sventrato, scavato dalle bombe.
Nessuno la soccorre. Perde sangue alitando a fatica respiri di resilienza.
Volge lo sguardo malinconico nel pianto del bambino che saluta il padre in partenza per la battaglia.
Bambino così simile a quello ferito a morte, avvolto in una coperta azzurra macchiata dal suo sangue, inutilmente soccorso dai medici in un ospedale senza corrente elettrica.
Libertà che si lascia andare alla melanconia nei canti di morte che risalgono dalle trincee scavate per arginare l’avanzata dell’aggressore. La voce del popolo Ucraino si sente potente, rimbomba severa e fa da contraltare sonoro alle scie dei missili che tagliano l’aria in due ad ogni suono di sirena.
Libertà che si rimescola alle schegge impazzite che, a Irpin, impalano a morte una famiglia in fuga;
che crolla a tombare a la giovane Ludimilla, in cerca di un “inutile” riparo dai missili su Charkiv;
che nidifica tragicamente nella gola di un boato che inghiotte un pezzo d’ospedale a Mariupol;
che urla sino a perdere il fiato quando le bombe termobariche iniziano la loro colletta di anime innocenti, squarciandole, spappolandone gli organi per disseminarli come concime che non nutre le zolle ma le inaridisce;
che rimane cristallizzata nei corpi vilipesi e martoriati di Bucha, uomini, donne e bambini che si sono trovati a passare nel posto sbagliato ma nel momento esatto per essere legati, torturati, stuprati, bruciati nel folle banchetto dell’eccidio;
che si sfibra nella paura che mette in moto la fuga dall’orrore.
La libertà è lì, in mezzo al nulla della ragione, ferita gravemente e prossima alla fine. Nessuna parola di conforto mentre i carrarmati continuano a scavare, tutt’intorno, fosse comuni. Come acido che cola nelle orecchie subisce la voce dell’Apocalisse.
Parole che “giustificano” l’ingiustificabile l’accoltellano nuovamente, sul petto già severamente leso dalla mitragliatrice. “Denazificare la regione” come a voler “derattizzare” una casa dai “topi”. Eppure i topi sono persone, indifese, rintanate negli scantinati, hanno bambini malati al seguito, vecchi che hanno visto gli orrori della guerra, che hanno combattuto i nazisti veri, che li hanno stanati dai loro rifugi dorati, liberando i campi di concentramento e, ora, sono pietrificati dall’ ignobile virtù capovolta: la menzogna.
E se le manca un infinitesimo margine di sofferenza, se il dolore che prova non è all’acme della sua potenza, ecco accorrere “orde” di “malpensanti” che vi si lanciano addosso per farne scempio, strappandole gli ultimi abiti che indossa, farneticando frasi ignobili e tossiche del tipo: “Non è vero niente”, “I cadaveri si muovono”, “Fa tutto parte di un grande set cinematografico”.
Eppure, in lontananza, qualcuno le lancia una sfida: “La Libertà si può salvare grazie alla Pace”. Questa le potrebbe ridare vita, sangue, nutrimento miracoloso per rialzarsi.
Ma come si costruisce la Pace se il terreno è minato? Eccola (la Pace) che prova ad avvicinarsi ma, ad ogni passo, esplode un pezzo di quel mondo già martoriato come un Cristo moderno sul Golgota dell’ingiustizia. Ora è immobile, in trappola, circondata da un plotone pronto a fare fuoco se solo prova a muoversi. Ma non è detta l’ultima parola, arrestata la Pace, in manette come gli oppositori, arrivano dall’altro fronte medici a soccorrere la Libertà che è in arresto cardiaco.
Sembra una condanna del destino, anche il defibrillatore è scarico, non può essere salvata.
Allora una dottoressa, che sembra emersa dalle nebbie di un paesaggio lunare devastato sino all’osso, tenta una RCP (rianimazione cardio polmonare). Inizia a praticarle 30 compressioni toraciche costanti alternate con 2 ventilazioni. Le soffia in bocca aria per farla giungere ai polmoni quasi asfissiati dal fumo delle esplosioni. E continua per molto tempo, mentre tutti hanno le braccia, sfiduciate, lungo le gambe, come consci e consapevoli che nulla potrà ribaltare un finale già scritto. Molti di loro, disillusi si lasciano cadere, inginocchiati. Le donne pregano l’Arcangelo dorato, che svetta su Kiev, di proteggere la città dagli aggressori salvando la Libertà da quella catastrofe.
La dottoressa non si ferma anche se sente alitarle la morte alle spalle, anche se provata dalla stanchezza, preme sul petto cercando di farle ripartire il cuore, spinge aria nuova mista alle lacrime che le bagnano le labbra. Sul giubbotto che indossa, sotto il simbolo della Croce Rossa c’è scritto il suo nome: Speranza.
Ed ecco che il cuore, per un briciolo d’inconsapevole mistero, riparte.
“Resisti” le dice chinandosi su quel volto in ripresa ma quasi completamente tumefatto “Non è ancora finita…”

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