Chiare, fresche et dolci acque

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

Da sempre (e da diversi pulpiti) viene ripetuto che ogni crisi è un’opportunità di crescita; ma se questa crescita è da ritenersi proporzionale alla vastità e profondità della crisi, quale sarà mai il livello di sviluppo che dobbiamo immaginare al cospetto di una situazione critica generalizzata, globalizzata, prolungata, ormai istituzionalizzata, che investe e scuote dalle basi l’ecosistema, il clima, la psiche umana, l’ordine politico, la vita economica, industriale, agricola e le risorse idriche di tutte le nazioni del mondo, con in testa il gruppo di quelle – si fa per dire – più progredite? E se invece fossimo destinati ad una crescita apparente, senza sviluppo, volta a contemplare paesaggi (reali e metaforici) in rovina, a farci perdere definitivamente anche la capacità di indignarci? Questo tempo ‘sospeso’ fa pensare alla scomoda posizione di alpinisti che – già abbastanza stanchi – sostano a metà della scalata guardando all’impervio percorso che li aspetta per arrivare in cima e se non decidono di tornare indietro è soltanto per non dichiarare il loro fallimento. Ho l’impressione che Avellino, che ha saputo in pochi decenni mandare al dimenticatoio illustri cittadini – grandi intelligenze che la storia e la letteratura europea ci hanno invidiato – sosti da tempo pigramente a metà scalata, optando il più delle volte per una provincialità sonnolenta, paga di familismo amorale ed assistenzialismo e come tale ignara di prospettive di cittadinanza attiva, ma risoluta a stroncare al momento opportuno con un’indifferenza invidiosa gli sparuti – ma non certo sprovveduti! – intellettuali che pure sono in circolazione per le strade dello struscio in attesa di qualche incontro significativo. A questi sarà venuto talvolta il dubbio di essere diventati invisibili, tale è il disinteresse da cui in genere si sentono circondati, non solo per incuria dei distratti concittadini quanto per un’accidiosa operazione mentale posta in essere nei loro confronti, che Freud definisce con due parole appropriate ed eleganti: eliminazione simbolica.

Sì, ormai ne siamo convinti: nel bene e nel male non potremo più essere gli stessi di prima della pandemia e del terribile eccidio ucraino. Anche se continueremo a vagheggiare il ricordo della sorgente che scorreva ad Acquafidia in mezzo a castagni e querce secolari, non penseremo più per prima cosa all’armonia dei versi immortali – ahimé propinati come dovere scolastico – con cui Petrarca celebrava con il prodigio dell’acqua il suo amore per Laura. Probabilmente non ci sedurrà più la musica tranquilla dell’acqua che sgorgava dalla roccia per formare a valle un limpido stagno, in cui si intravedeva Narciso specchiarsi per la sua prima ed ultima volta. Oggi la crisi idrica imperversa ovunque, innescata dai dilaganti cambiamenti climatici, e con essa crescono a dismisura le mire espansionistiche delle multinazionali pronte ad impossessarsi di un bene comune per lucrarne impropri guadagni. E tardivamente sembra accorgersene perfino una città a corto di orgoglio civile come Avellino, che la natura ha generosamente dotato di invidiabili risorse idriche (tra le maggiori d’Europa) finora in gran parte sperperate.

Eppure, illustri pedagogisti e filosofi ci segnalano che stanno sorgendo nuove opportunità educative proprio dalla crisi ambientale. Qualcuno si è preso la briga di enumerare i principi fondamentali per l’esercizio di un’intelligenza ecologica, che va ad aggiungersi al novero delle sette intelligenze a suo tempo individuate da Howard Gardner e all’intelligenza emotiva di Goleman, invocando l’eco-pedagogia e l’eco-didattica per giungere all’alfabetizzazione ambientale. Nihil sub sole novi, si dirà, se già nell’Ottocento, in pieno clima romantico, nascevano i primi Kindergarten – Giardini d’infanzia – per educare i bambini a stretto contatto con la natura. Ma oggi la questione è diversa: la transizione ecologica invocata a più voci in campo agricolo, industriale e tecnologico investe come un’onda l’educazione alla cittadinanza attiva, rivoluzionando i rapporti tra etica, economia ed ecologia con l’adozione di nuovi paradigmi, scenari, linguaggi. La consapevolezza che tout se tient – tutto è connesso – comincia a diffondersi, anche se è ancora presto (ma se è già così tardi?) per vedere i primi segnali di un tardivo, o quanto meno intempestivo, cambiamento di rotta.
Qualcuno inneggia all’ideale circolarità tra outdoor education, ecologia e senso civico, riconoscendo che l’apprendimento indoor rischia di produrre mentalità ristrette, verbosamente centrate sui linguaggi formali anziché su buone pratiche esperienziali aperte, circolari, emozionali, inclusive. Imparare fin da piccoli a fruire di un paesaggio sonoro è una di queste fondamentali esperienze, che immette in un ambiente acustico naturale consistente nei suoni prodotti dalle forze della natura e degli animali, ovviamente uomini inclusi. È un’immersione totale che rivela come ogni tipo di suono sia prodotto dal movimento: il vibrare di una corda, lo stormire del vento tra le foglie, lo scrosciare della pioggia, il fruscio delle zampe di un animale impaurito, il suono pacificante di una campana. Ma soprattutto, l’outdoor learning – che ovviamente implica anche il paesaggio visivo, tattile, olfattivo, gustativo – deve essere vissuto come un’esperienza solidale: è intuizione, apprendimento cooperativo, scambio, confronto cognitivo, linguistico ed emotivo, di cui non sfugge la ricaduta in termini di consapevolezza di sé e dell’altro, della natura e della società, in una parola, di educazione civica. Ma non mi va più di esporre teorie educative in momenti come questi in cui tanti bambini migrano per terra e per mare, se non sono morti prima a causa dei bombardamenti. A noi non è dato sapere quali siano i loro pensieri, le loro ingenue ipotesi circa le cause di un’esistenza così grama, né quale possa essere la proiezione nell’incerto futuro dei loro Sé possibili nella prospettiva di progetti di vita spesso stroncati sul nascere. Nessun laboratorio di filosofia dialogica si potrà allestire per loro: non avranno tempo per queste ed altre gratificanti esperienze comunitarie. Forse può aiutarci Alessandro D’Avenia, con queste considerazioni tratte da Cose che nessuno sa, a trovare un senso a quello che sta accadendo:
C’è un dolore che accade, che l’uomo non sceglie, e appartiene alla Terra ed è parte di quel ciclo, fa morire e porta a rinascere: è il dolore del parto, sono le doglie della Terra, i terremoti, le eruzioni, le inondazioni o le più silenziose stagioni e il tranquillo succedersi del giorno e della notte. È il dolore quotidiano della monotonia, della fatica di amare, di alzarsi dal letto, di trovare qualcosa di nuovo in ciò che si ripete. Ma solo chi accoglie il dolore che la giornata offre si fa la pelle nuova. Anche le perle sono il parto di questa forma di dolore, trasformato dalla madreperla in luce.
C’è poi il dolore che l’uomo crea, il dolore non biodegradabile, il dolore che si riesce a smaltire solo dopo secoli. È il dolore procurato volontariamente dall’uomo all’uomo e alle cose. Ferite che si rimarginano dopo un lungo tempo, a volte lunghissimo: le menzogne, le violenze, le guerre… Ma anche per questo tipo di dolore c’è una soluzione. Dove il tempo fallisce, il perdono è capace di smaltire quel dolore. Solo il perdono rimette il dolore nel circolo della vita. È madreperla divina, concessa di rado alla Terra. Produce perle rarissime e ci vogliono anni perché si formino
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