Noctescit: Un tributo in memoria di Armando Saveriano

Noctescit: Un tributo in memoria di Armando Saveriano

Ogni notte cambia il suo dolore
e il mio pensare aggruma
c’è sempre un’ora che quando scocca
dimentica aperta la sua porta
io cerco affinità nelle orme
che le foglie non coprono
le bestemmie non colmano
Continuo a stare in grembo a Venere
queste parole sbocciano girovaghe
colpite all’ala
Togli le tue dita se vuoi legarmi a morte
scrosci di me spaventano
chi tiene il sangue acquoso
sosta nel desiderio anche chi non ha nome
s’ibernano le ombre molte e disciplinate
le chiamo a mio capriccio
e vestono i miei occhi
sfiora se vuoi le braccia
io taccio sulla sorte

[Armando Saveriano]

Emanuela Sica
Se la notte spegne il quotidiano e accende le illusioni, nei movimenti felpati degli occhi che si allentano dalla luce, si rivestono di emozioni e sentimenti, spesso messi da parte o inesplorati nella realtà, ecco che il pensiero di chi non c’è più, nel respiro che rallenta e si accomoda nel riposo, autenticamente viene a galla e dipinge una mancanza che considerare assoluta sembra poca cosa. Così Armando mi riappare nella dimensione di quella velleitaria chimera chiamata sogno e nel pieno possesso della sua giovinezza. Vestito come un signore d’altri tempi. Elegante, snello, nella sua forma fisica che più lo rappresentava. Era lui il poeta che sapeva catturare l’attenzione anche semplicemente con uno sguardo. Al di la delle parole che si liberavano fluide dalla bocca, per qualche verso “intricate” ad un orecchio inesperto, il mio, il nostro “maestro”, torna a vivere senza il dolore dell’addio. Anche adesso, da sveglia, voglio immaginarlo “bucolicamente” addormentato nel ventre di questa Primavera, pronto a germogliare sempre più rigoglioso anche ora che solo il suo corpo mortale è sotto terra. In un altro luogo invece, a noi sconosciuto, la sua anima, quieta e priva di quel dolore acuto e della speranza “disperata” che lo affliggeva, diventa un “diamante solare” che illumina in rifrangenza le nostre vite, quelle che ha toccato con la sua “sapiente e, a volte, burbera” presenza, col suo essere “unico” e “non mutuabile”; o quelle che ha solo sfiorato, addirittura quelle da cui, volontariamente, si è allontanato. E la sua irruenza, la sua verve, la sua spietata critica agli orpelli del nulla, diventa fertilizzante per noi che siamo il terreno in cui ha piantato, a grandi manciate, le sementi della sua arte, della sua “eclettica” poesia. Doni che abbiamo curato e raccolto anche e soprattutto insieme, perché Armando è stato capace di fare gruppo, di creare dei legami che ci accompagnano, anche ora, che non è più quel “verbo” che si “agita” nel centro vitale del suo mondo perché il destino ha deciso di “spostarlo” al centro del nostro.

Ritaglio dalla pelle
il districato lascito delle parole
le luminescenze dei sorrisi
i cruenti eccessi di un cuore
così tenace da fermare il nostro
mentre eri già altrove.

Ingabbiata incredula nella stasi dell’addio
ruvida scorza a sfrondare
il circolo polare artico dell’assenza
l’antico e florido gelso
a perdere i succosi frutti
nell’elegia più cupa del notturno.

“Tra le braccia della luna”
come il lessico del tuo profilo
dondoli sornione
e rinneghi le contrizioni
le suppliche del pianto.
Quale meravigliosa costellazione
attende la tua libertà
la corsa veloce dai pesi degli affanni?
Ora sei scintilla soave
ritmo d’inconsistenza
felicità dischiusa all’abbandono
in una parola
poesia.

“Se c’è un Dio
prego di andarmene nel sonno,
sono stanco…”
L’ultimo alito di vita
rinnegò il nostro desiderio
di tenerti
esaudi’ il tuo.


Luca Crastolla

Ciao Armando, oggi sono venuto a trovarti. C’era tanta gente (vorrei poterti dire) ma tu? Tu dov’eri? Qualcuno ha detto che eri serrato dietro una porta per fare dispetto a quei pochi. Uno dei tuoi scherzi pesanti che spesso gettavano nell’imbarazzo. Oggi il tuo scherzo più brutto, devo dirtelo. Del resto non sono qui a suonarti il violino: eri una persona burbera, tutta spigoli, difficile da trattare. Forse eri solo un uomo, un uomo molto arrabbiato; un figlio di questa vita, un fratello mai riconosciuto. Però eri anche un poeta generoso: con la tua poesia, certo, ma anche e tanto con quella degli altri. Non ti ho mai nascosto i debiti contratti in questo gioco d’azzardo: avevamo scritture e urgenze diverse ma tu avevi il talento e il mestiere per entrare nelle parole altrui e spronarle, centrarle. Di molti miei fuochi io sono stato la legna e tu il piromane. La legna da sola non sa come può avvampare. Molti dovrebbero riconoscerti questo: riconoscere che avevi un ego smisurato ma non conoscevi invidia, che il tuo valore lo affidavi ai versi, non alle bagatelle, e se incontravi qualcuno che poteva dare qualcosa alla poesia (come al teatro) lo lodavi, lo incitavi al di là di qualsiasi sua estrazione. Eri uomo di forma, bella forma, eri anche un uomo di sostanza. Ora, mentre me ne torno a casa, penso a quante telefonate sono corse su è giù tra noi, ma con rammarico penso anche che ci siamo visti molto poco, solo per eventi di poesia. Pensiamo che ci sarà sempre dato tempo di fare, d’incontrare, di stringere mani. Che vite facciamo: portiamo visite ai morti.

Floriana Coppola
Ci sono alberi nascosti
nella mandorla chiara del riso
alberi che fluttuano e fruttificano liberi
con radici forti della terra madre irpina
e una stanza piena di voci
voci del passato che ritorna
come fioritura dia acacia
voci a grappolo che fanno vino buono negli otri
e lui raccoglieva le sue voci di bambinofalco
intrecciate alle voci dei ragazzi
alla fontana, nei cortili, nella piazza
aveva la forza malandrina del giullare
e lo sguardo del maestro che spinge e avanza
con lui serrati in branco
uniti in stormo
a valanghe e a pioggia a lui
si ritorna

Davide Cuorvo

Parlami, o dolore di cielo e silenzio.
Questa stanza non sfoglia
che un remoto sorriso, grida di
passaggio, taciuti traguardi.
Tu sai ch’io vivo nel nido dei passi
tuoi d’argilla, ora rassetta
il tramonto,
ravviva il giardino, schiudi per me
ogni notte. Negli sbalzi di luna
verrò a cercarti, Babbo, lì dove
dorme il tuo nome, al sole.

Silvana Pasanisi

Armando
Scegli le parole adatte
scarnificale
Sacrificale quando vuoi
Tu sei l’arma più potente di questo tempo
Una volta pronunciate
accendi il fuoco e dimenticale
Di nuove
ce ne saranno di nuove
come un lungo amore epistolare
L’ultimo foglio è andato smarrito
Ti prometto che non lo troveremo
Fine non c’è per noi
Fine non esiste
Ma alba
vento
rumore
labbra dischiuse
mani raccolte
E sole che non si offende

Maria Consiglia Alvino

Venerdì, prima ora di gennaio.
I ragazzi non ci sono
Io non ho dove andare.

Non c’è altro luogo che questo
buio non dire. Vorrei decidere
una parola, una sola
dentro il sentire.

“Ci vuole poesia nelle scuole!
Meno Leopardi, più Novecento!”

Sei tu,
ultima fila, ultimo banco.
Sorrido e mi pento,
pianto ancora ginestre.

Io prego
avere mente ardente
bocca sanguigna
sguardo amante
una luce dentro il gelo
calda come la tua parola
al mio.

Perché non ci sono maestri
che i buoni padri e le madri,
come tu fosti da una sedia
di coraggio azzurro, alata fantasia.

E quando i ragazzi torneranno
che sia con me dirotto il canto,
che io ti ascolti ancora, Maestro,
pure dentro al pianto.

Oana Lupascu

Vicino all’entrata sulla soglia
Tra ieri e oggi sentivi
Il lamento dei secondi primi
Sui cardini dei giorni
Stipati come su binari morti
Albeggiavano alcuni desideri
All’incrocio dei pensieri
E ti esercitasti a trovare
gesti nuovi
Nel voltare delle foglie
All’incontro tra i primi raggi del sole
E quelli dell’astro già morente
Fanciulla dai capelli lucenti
Ormai senza la chiave di mondi infiniti
Concepisti me e poi io partorii
Clemente implorai la grazia
Voce potente in terra e nel cielo e nel mare
Per i miei versi appena nati
Nutrice di parole nuove
Guida nei momenti di passaggio
Testimone nella discesa agli inferi e oltre
Traghettatrice di pensieri
Fanciulla madre e vecchia
Mi celai per morire per poi rinascere ancora
Guarire e ridiventare intera
Come la luna che ci guarda indifferente
Ritorna mi avevi detto e io tornai
Là non importavo a nessuno
E allora tu dicesti ancora
La terra si ricorderà di te

Federico Preziosi
Ci si rimette allora alla parola
in questo smarrimento che percuote
le nostre solitudini, e gli incontri
non fanno più ritorno per una resa,
un grave impedimento oppure un sogno,
quel tuo morire in tronco che tenevi
stretto al sonno di vita per ciascuno.
L’azzurro dello sguardo, Maestro amico,
ha i voli degli stormi che dirigono
il proprio orientamento stagionale.
Staremo in compagnia della tua assenza
perché ci è cara l’incompiuta attesa
di ritrovarci pezzo dopo pezzo
magari dentro un sogno o un al di là,
tra le righe di un libro che ha goduto
dei tuoi pensieri colti e visionari,
dove interrotto ricomincia il dire
appeso a un filo, al modo che scandisce
la dizione del cuore, e ancora ridere
del modo in cui riprendi l’argomento,
al riaffiorare lesto il tuo linguaggio
sui tanti volti affranti che in un lampo,
Armando, la tua voce troveranno.

Elena Deserventi
Qui la tua voce non tace
non si incrina inattesa
è calda di respiro vicino
risuona in parole pronte
a aprirsi nel volo consueto
Non scende il sipario
sulla scena incompiuta
Aspetto e ascolto
Ci sei come rondine al nido
come impronta nel calco
come aria che libera va
Sei presente nell’assenza dal mondo
più presente che mai nel sospiro perenne
di un universo unico.

Antonio Califano

Il mare oggi ha grano basso e
braccia prolisse
ha colore delle occhiaie
In certe ore apre le pagine e le schiume
accoltellano i piedi sa poco di sorella
quando al maestro i legacci hanno arreso
le vene frontali
uno scoppio masturbato ritornata Sibilla
Cosa mi dici
Passa l’infastidito è preoccupato per la sua
notte
non può trovare giovani donne con conchiglie
attente La tempesta è onesta si ripete
per sempre con i suoi fiati
si aggiunge come calar del sole alla bocca
mentre ti guida ad esca e dispensa alla lenza
è un’ulteriore tortura
Su quale arringa di mare resiste la madre
del tuo occhio quando sai quale lingua
ti ha preparato il letto dove si è vietata l’ultima
parola

Maria Gabriella Cianciulli
Dove sono i morti ora?
Nessuno cede al vento le sue radici
e tu le avevi già nell’aria
non come chi vive di Terra e di pietra
La tua ultima burla per dire
di libertà dal tarlo
sei volato via lasciando cadere le ali
e noi qui
Noi qui
a misurarle le tue ali
La tua ultima burla spazia nell’azzurro
e di azzurro sempre colorata
ha acceso la nuvola di rosa
Noi qui
col naso all’insù
tra piume e macigni il tuo dire
ha sposato l’infinito
dopo la lunga promessa

Ketty Martino

Come se il sangue che scrive in vece mia
avesse, dal cuore, aperto un nuovo varco
come se il nodo che non si scioglie
fosse un abbozzo di parole impronunciate
come se i miei versi che chiamavi “asciutti” traboccassero
ora solo di immagini barocche avvoltolate su sé stesse

forse perché non c’è definizione esatta a contenerti
forse perché ogni verso (tuo) che rileggo, ogni iperbolica
canzonatura gronda ardore che nemmeno il cielo
è in grado di smorzare
forse perché affrancato ora dagli affanni
puoi godere ancor di più a strizzare l’occhio,
a stigmatizzare, a distribuire il tuo sarcasmo
in attesa di chi sappia afferrarne il senso e tenerti testa
forse perché spero caparbiamente che anche lassù
la vita e la morte siano faccende serie solo nei libri
e tanto oneste da restituirti il giusto.

Angelo Curcio
M’accecava entro barbaglii di sentire denso
quel per me sconosciuto scenario di barocco
lontano dai miei passi di curiosità
marcata e poco o nulla vezzosa
anche senza orma alcuna di dio a prendere possesso
dello spiritato silenzio delle navate
lo immaginavo
di quella sfumatura di pagliuzza aurea
che anche la più indigente zolla riesce talvolta a donare
contemplarlo poi dietro tabernacoli di palpebre
indugianti nel riposo prima del sonno
il mare dirimpetto quasi una parentesi
tra abissi di liquido e di siccità
un ponte privo di punti di fuga tra i parapetti
sospeso tra calce abbagliante di lirici greci
e opere di irrigazione in un deserto
di greggi e lupinella amara

Quei sogni all’apparenza macilenti
ma col sanguigno ben radicato
nelle vibrazioni di costato
ipotesi future addensate a rigoglio di memoria
per gioco di lancette mi anticipavano
quella Puglia che avrei conosciuta
e amata in giorno dentro cuore di versi
nuovo fondale di stoppie
oltre la severità del Calaggio o delle fonti tutte
che certa origine hanno ma mai foce prefissata
pareva transustanziarsi in pizzica di streghe
quell’ansito di pelli della tammurriata
che arabescava nella festa popolana
del raccolto condotto ai granai
io ai margini d’ogni cosa
attendevo un tramonto qualsiasi
come aroma di vermiglio colato sopra un’inferriata
o sugli eterni gemelli di metallo che m’avrebbero accolto

Quanto di me si faceva parola?
Quanto di agognate alture ritrovavo in brossura
o in inzaccherato e carbonaro ciclostile?

Più luce mi ritrovavo a invocare
come un mantra che agogna il mandala suo
raggi come specchi dalle pagine o da quella finestra
sghemba verso il monumento mai assopito del Partenio
una fiaccola da viandanti notturni
per quei dolori dal tascapane così povero di briciole
per quegli amori imbellettati d’apparenze
rime baciate dove ogni cuore si tramutava in fiore
con la pallida luna sullo sfondo
sempre pronta a mingere
a labbra dilatate la sua buona acqua di sospiri

Poi una lettera
In lettera 32

Sa quello che vuole la voce
spodesta i santi dal calendario
e le assi dalla polvere appiccicosa dei teatri
addita i fari senza rossore di cute
Lecce fuori dalle cartoline per i sandali
dei turisti macera fondali nuovi dove il mare
quasi mai balugina e ogni antico d’arco
a tutto sesto o di scalinata degradante
dal sacro verso un borbottare cocente
di umanità ai crocicchi diventa bulino
affilato sull’unghia qualcosa che va oltre
il seminare sillabe sulla superficie candida
finisce col somigliare a ogni strada mia
di macerie rimosse con gli umori del fiume
a far cappa e humus come se quell’arabesco
di barocco avesse assunto forma antropomorfa
un demone da nascondigli d’incenso
col vello docile sotto le dita e la luce
nuovamente che si fa guida in raggio
sparge saccaridi ustionanti sui frutteti
la riconosco (oh si!) in ogni martelletto
di consonante col vigoroso stupore
di discernere anche nella vampa dell’ora
allo zenit quanto possono essere oscuri
quei poeti e l’opera loro di pittura
fusa in un solo colore…

…e vanno oltre alcuni

Lucia Triolo
Armando

spezzato il verso e la voce
con l’occhio
sottratto alla causa
del solito gioco
l’ io capovolto ansimante
come albero divelto dalle sue stagioni
volevo dirti
un grazie
che affratella molte cose

Maria Rosaria Di Sisto

così le stelle in delirio di sole
aprirono il firmamento
altrove versi d’antico nettare
arrendevano il tempo
al tuo improvviso istante

ti aspetto a una finestra sempre aperta
e un’aria nuova ti canta e ti recitano
gli uccelli in scompiglio di piume
sei danza di vita
mia voce umana nell’immenso

e un grido universale ti contiene
quasi per richiesta d’amore
se portandoci un po’ addosso
e un po’ nel cuore saremo uno
di piccolo o grande indefinito

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