Alla primavera manca
Poesia scelta: Alla primavera manca
Autore: Sergio Daniele Donati
Manca alla primavera
il soffio di ciò che langue,
la cura per ciò che nutre,
sparendo, le nuove stagioni.
Primavera è il bello che avanza
incurante della fatica della creazione.
Per questo ogni primavera
mi porta lontano
in un rosa che non abita
la mia anima
ma che tinge i miei occhi
d’una speranza antica.
La rinascita crudele
che cancella il dolore
per il virgulto
che mai ho potuto essere
ha nome primavera
agli occhi d’un mondo
perso nel sogno.
A cura di Emanuela Sica
Si muove nella dimensione del sognato, del desiderato, la camminata a piccoli passi del poeta che si allunga all’estremo dei sensi o forse sarebbe più giusto dire che scende nelle profondità dell’anima sino a toccare con mano “l’assenza” di qualcosa che potrebbe definire la sua esistenza e che, di riflesso, aggiunge al mondo, alle stagioni, in particolare alla primavera quella necessaria “essenza” che la nutre e che la fa essere peculiare così com’è nell’immaginario collettivo.
Si perché la “primavera” è innanzitutto “presenza” di bellezza che “passeggia” nell’universo nonostante la “fatica” della creazione. Indipendente dalle cose che accadono all’umanità la stagione del fiorire e del “germoglio che sboccia” accade a prescindere da quello che rovina, fallace, sulla terra per restare immobile, morire, estinguersi.
Si comprende quindi che l’aspirazione è alla rievocazione di quella magica e ancestrale “primavera” che indirizza lo sguardo (indagatore) del poeta non solo al passato, a quello che ha “abitato” il suo animo e ha “tinto” i suoi occhi di una “speranza antica” ma soprattutto la necessaria resa delle brutture del quotidiano alla meraviglia di una rosa che, pur non essendo parte di quel mondo anelato e ricercato, diventa simbolo di rinascita e rievocazione di una vita che potrebbe essere “vista” in un’ottica differente e, magari, più avvolgente che prende e trasforma quello che tocca ed è, pertanto, maggiormente riflessiva e autentica.
Nei versi di Donati altalena la consapevolezza che la “cura” sia “l’elemento che manca” per rendere fruibile, concreta, la percezione del bello. Percezione che, probabilmente, non ha mai davvero preso forma nel “virgulto” che si desiderava essere ma che, nell’aspirazione dell’uomo che comprende quel doloroso difetto esistenziale, si rapporta al mondo con occhi pieni di sogni, nonostante tutto.
Che è un po’ come dire… “anche se la vita è stata severa con me, non facendomi crescere così come avrei voluto, come fiore di campo o gemma di pesco, lo stesso adoro e amo quella vita che mi è stata riservata.”
È questo quello che spesso viene chiamato “rendere grazie” nonostante le mancanze severe che il destino ci ha prefigurato. La religione del “tanto ho e mi basta” si sfila delicata nella figura dell’uomo che non si preoccupa di quello che non possiede ma si accontenta di quello che ha.
Ed anche se il mondo stesso ha perso consapevolezza di quello che significhi sognare, talmente tanto è avvolto dalla cattiveria, dalla carestia dei sentimenti più edificanti, dei valori fondativi l’essere umano, del rispetto, della misericordia, della fratellanza, della socialità intesa come cardine per la costruzione di migliori prospettive di vita nel futuro prossimo, comunque non si rinnega quello che ha raccontato la vita, nel monologo con se stesso e nel dialogo con gli altri.
Si nota, nella costruzione del verso, la sintesi di mondi che sono in perenne conflitto. Di un vissuto in bilico tra il dover essere e l’essere a prescindere dall’obbligo etico di dovere. La crasi di una quotidianità che si realizza nel necessario collegamento tra ieri e domani. Nel centro dell’uomo poetico vi è la resistenza all’attualità. Si perde e si ritrova l’io senza particolari ragionamenti o filosofie ma con la prospettiva di rendere concreto il desiderio che si ha del domani. Una sorta di evasione necessaria per costruire le aspirazioni future, i nuovi fiori che potranno nascere rigogliosi nel giardino, variegato e multicolore, dell’esistenza.
Prima di questa lirica che oggi analizzo, presa dal suo blog “Le parole di Fedro”, vi è una poesia di Claude Roy: “Pensée qui à peine se pense,/la neige neige sur la neige./ Entends-tu qui marchent pieds nus/ s’avancer les pas du silence”
Probabilmente è insita in questa piccola citazione il canovaccio da cui il poeta parte per sviluppare la sua “aria” meditativa, quella per intenderci che si infila nei polmoni e crea la condizione utile alla riflessione sul senso da dare alle cose, anche e soprattutto a quelle che mancano, che non si possiedono.
Eppure, inversamente a quanto si possa pensare, da una prima e veloce lettura, non è questo un canto soggiogato dall’arrendevolezza, dalla sofferente consapevolezza che il mutamento non sia possibile e che non si arriverà mai a possedere ciò a cui si aspira. La poetica, in questo caso, si dirige nell’opposto senso.
Si rende conto di quello che potrebbe giungere a migliorare le cose, ha piena coscienza del pezzo di puzzle che manca ma, allo stesso tempo, idealizza la scoperta di una forza che potrebbe mutare ogni cosa anche quella che consideriamo immutabile. È in questa “coscienza” che si infiamma la luce della speranza capace di ribaltare “il granito statico del presente” mettendo tutto in discussione o, addirittura, riscrivere all’ultimo secondo un finale che sembrava inderogabile, senza possibilità di eversione.
È tutto qui il “disvelare”, il riconoscere “implicitamente o esplicitamente” il miracolo della “primavera” e quindi della “rinascita” dopo un lungo letargo di ogni essere che abita la terra.
Questo perché, sin dall’antichità, si credeva che nella stagione primaverile si verificasse un equilibrio cosmico perfetto, in grado di portare energie anche perché il “risveglio” della natura con i suoi colori accesi influisce anche sulla nostra vita, rappresentando quel momento opportuno per prendere coscienza di ciò che siamo per poi ripartire con slancio.
Non è un caso se, in ogni epoca e cultura, l’inizio della primavera è stato accompagnato da rituali e celebrazioni propiziatorie, con intenti e significati di costume e religiosi diversi, ma accomunati dal medesimo desiderio di riuscire ad essere “riposizionati nel mondo”, la cosiddetta “rinascita” unita al rinnovamento, qualcosa di essenzialmente presente nell’inconscio collettivo dell’umanità.
Ed è appunto un “rituale” quello che sottende alla poesia di Donati. Quello che, per il suo creatore, si concretizza nella “rinascita crudele che cancella il dolore”.
Per questo, tra le tante celebrazioni ritualistiche che caratterizzano la primavera, mi piace evidenziare quello dei “Misteri eleusini”, nati come riti religiosi misterici celebrati in onore a Demetra, nell’antica città di Eleusi, non lontano da Atene. Persefone, rapita da Ade, tornava dalla madre Demetra proprio in primavera, rappresentando la ripresa del ciclo della natura. L’intera popolazione vi partecipava con una processione durante la quale si agitavano le palme e si accompagnava la statua di Persefone fino al Tempio, dove la giovinetta si sarebbe ricongiunta alla madre. Demetra, felice di poter riabbracciare la figlia, avrebbe nuovamente fecondato la terra e destato gli animali dal letargo del rigore invernale. Ed è proprio nei rituali liturgici cristiani che sono evidenti le tracce di questa tradizione. Pensiamo al simbolo del grano e delle spighe, adoperato durante i misteri Eleusini, in considerazione del fatto che Demetra era la divinità delle messi e nelle spighe. Il colore giallo, poi, rappresentava la rinascita, come in ambito cristiano la spiga indica Gesù, il grande mietitore delle messi e la sua Resurrezione. Alcune tracce dei rituali connessi ai Misteri eleusini possono essere individuate nei cosiddetti “Misteri” del giovedì e del venerdì santo nella zona geografica del Salento, quando uomini scalzi incappucciati detti “Pappamusci”, allestiscono le chiese con cestini di grano giallo, riccamente decorati chiamati “i piatti”, e girano di sepolcro in sepolcro come penitenti e guardiani allo stesso tempo, rappresentando, altresì, gli iniziati ai misteri della morte e della risurrezione. Tale celebrazione viene denominata “I Misteri”, compresa la processione della Via Crucis, che, a parte il significato di memoriale del processo e della morte di Cristo, potrebbe sottolineare il misterioso percorso che l’anima compie per giungere a Dio. Ma non solo questo caratterizza una evidente similitudine con la pasqua cristiana che affonda radici nella tradizione giudaica. È utile ricordare che la “Pesach”, detta anche Pasqua ebraica, dal punto di vista religioso, ricorda la liberazione del popolo ebraico dall’Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa. In questo caso le celebrazioni durano otto giorni e culminano nel “Tanakh”, la cena rituale che si celebra nella notte fra il 14 ed il 15 del mese di “Nisan”, mentre i successivi sette giorni sono chiamati “Festa dei Pani non lievitati” o “Festa dei Pani Azzimi”. L’aspetto interessante è che, a parte l’importantissimo memoriale religioso, tale ricorrenza deriva da un’antica festa per il raccolto delle prime spighe d’orzo ed il relativo utilizzo per la predisposizione delle focacce. La “Pesach”, quindi, in ambito ebraico, segna anche il principio della primavera, assumendo anche il titolo di “Chag haaviv”, ovvero “festa della primavera”. È importante ricordare che il termine ebraico “pesach” (pasà in aramaico) letteralmente significa “passare oltre”, “tralasciare” ed ecco che si collega al racconto della decima piaga d’Egitto, quando il Signore colpì solo i primogeniti maschi degli Egiziani, nonchè la liberazione dalla schiavitù e l’Esodo del popolo di Israele. Ma il termine contiene in sé il significato generico di “passaggio”, quindi può essere inteso come appunto “rinascita della natura” e transito dall’inverno alla primavera, fino a diventare, nell’accezione cristiana, passaggio dalla morte alla vita e dalle tenebre alla luce.”
Infine, secondo alchimisti e astrologi, nella stagione richiamata dalla poesia sarebbe più abbondante lo “Spirito Universale” che feconda la Madre Terra. Spirito veicolato sulla Terra da particolari agenti atmosferici come la pioggia, i raggi solari ed il vento, che in tale stagione assumono connotazioni più incisive. Questo Spirito, che in maniera translata potrebbe essere anche chiamato “Anima mundi” non è altro che l’Amore in tutte le sue accezioni. Potrebbe essere questo “il soffio di ciò che langue” inserito nel secondo verso dal poeta? La risposta è soggettiva sicuramente ma mi piacere credere che sia proprio quello che “manca” stavolta alla primavera del nostro presente… tallonata com’è dalla guerra e dalla devastazione dell’egoismo di un uomo “solo”.
Sergio Daniele Donati è avvocato e vive a Milano. Allievo di Haim Baharier. Studioso e insegnante di meditazione ebraica ed estremo orientale. Insegna cultura ebraica e meditazione in associazioni e scuole di formazione. Autore tra l’altro de “Il canto della Moabita” presso Ensemble Editore e de “E mi coprii i volti al soffio del Silenzio” Mimesis Ed. Cura il suo interessante e proficui blog: Le parole di Fedro.
I commenti sono chiusi.