Le scoperte dell’uomo preistorico: il fuoco, poi la ruota. Un momento… prima c’è la guerra
Una interpretazione
All’inizio del film 2001: Odissea nello Spazio di Kubrik, in una preistoria molto remota, sono ambientate alcune sequenze dove si vedono dei primati scimmia, in convivenza difficile con altri animali e in più in conflitto con un altro gruppo di loro simili che gli precludono di abbeverarsi presso una pozza d’acqua.
Ricorderete – ricorre spesso nel film – che all’improvviso compare in scena un monolito, enorme, di colore scuro. Le scimmie lo circondano incuriosite, lo toccano, gli danzano intorno. Nella scena successiva una di loro è alle prese con un mucchio di ossa. Prende un osso lungo, forse un femore, lo brandisce e lo percuote sulle altre ossa. Si rende conto che le può frantumare, riesce persino a fracassare un cranio. Subito dopo, in rapida progressione uccide dei tapiri, gli stessi che prima lo infastidivano, e che adesso gli servono per alimentarsi. Ma, soprattutto, capisce che può tornare alla pozza da dominatore, affrontare il clan dei primati avversari, combattere con il più coraggioso di essi e avere la meglio. La scena è cruenta perché non solo ammazza il rivale, ma si accanisce con quell’osso – scettro del dominio – sul cadavere, per dimostrare ai suoi compagni e ai componenti il clan rivale, cosa è diventato e chi comanderà, da quel momento in poi.
Nel film, il monolito rappresenta una sorta di intelligenza ignota, aliena forse. Simboleggia in maniera immediata uno step evolutivo avvenuto in quel primate, progenitore degli umani. A mio parere mostra, in una sintesi perfetta, l’ambivalenza che l’uomo assegna a molte scoperte. La capacità, cioè, di difendersi e al tempo stesso di offendere speculando, nel bene o nel male, sulle proprie capacità cognitive. Dimostra, anche, come il limite tra sopravvivenza e supremazia sia a volte sottilissimo. E questo, già dalle sue origini.
La realtà storica
Un interessante articolo comparso appena due mesi fa (un presagio?) sulla rivista le Scienze, a firma di Anna Meldolesi, dal titolo “L’Origine della Guerra”, riferisce con tutto un elenco di scoperte, come negli ultimi decenni, antropologi, archeologi, etnologi e scienziati di altri campi, hanno portato indietro nel tempo e di parecchio, eventuali dispute tra gruppi di umani che possono definirsi a tutti gli effetti episodi di conflitto e scontro armato. “L’idea che la storia delle guerre inizi con i Sumeri è ormai superata” afferma la giornalista scientifica .
Nel costruire la diga di Assuan, negli anni sessanta, prima di allagare la piana antistante, a confine tra Sudan e Egitto, in località Jebel Sahada, fu rinvenuta una necropoli risalente al tardo Pleistocene (c. a 13000 anni fa) le cui ossa, furono trasferite al British Museum di Londra. Da studi effettuati su di esse, avvenuti di recente, con tecniche raffinate e di lungo periodo “slow science” (scienza lenta), durati sei anni, hanno stabilito che trattasi di resti che presentano lesioni da trauma, lievi e profonde ( e perciò letali) dovute a combattimenti ravvicinati. Chiaramente l’esame ha riguardato le lesioni lasciate dai colpi inferti sulle ossa, crani compresi, dalle armi in uso all’epoca; frecce, mazze, e lame di pietra dotate di impugnatura, nonché dardi di pietra. La collocazione delle lesioni, presenti sulla parte anteriore e posteriore degli scheletri, fa presupporre scenari caotici di battaglia avvenuta faccia a faccia.
Le motivazioni ? Forse l’assalto subito da un gruppo di cacciatori-raccoglitori nomadi o, più verosimilmente, da una tribù vicina attratta dalle migliori condizioni ambientali e di fertilità dei luoghi.
La diversità degli artefatti, in base alla tecnologia litica potrebbe far riflettere, sulla identità di semi-gruppi stanziali differenti. La valle del Nilo era uno dei pochi luoghi accoglienti, le terre più ricche di risorse dovevano essere particolarmente ambite. Siamo nel periodo della post ultima glaciazione, definito periodo umido africano, e le zone con le migliori condizioni climatico ambientali dovevano essere ridotte.
L’antico conflitto tra gruppi nomadi, in Africa – culla dell’umanità – ha lasciato testimonianza anche in altri luoghi della valle del Nilo. Il cimitero di Wadi Halfa, è un altro sito archeologico, dello stesso periodo storico, sempre sulle sponde del lago Nasser. Adesso, si sta studiando e potrebbe aggiungere altri pezzi al puzzle dei conflitti determinati dalle motivazioni ambientali.
L’analisi dei conflitti remoti si sposta, poi, in un altro luogo anch’esso paragonato, per tipologia di ritrovamenti, a quello di Jebel Sahaba ed è situato in Kenya, Nataruk. E’ ad ovest del lago Turkana, in un ambiente che oggi appare desertico, ma 10000 anni fa doveva essere ricco di vegetazione e di ogni genere di animali.
Secondo un gruppo di antropologi guidato da Marta Mirazòn Lahr dell’Università di Cambridge che ha lavorato sin dal 2009, nel quadro del progetto “In Africa”, sul ritrovamento di resti umani, ha stabilito che gli scontri avvenuti in quest’area devono essere stati particolarmente violenti. Primo, perché a differenza di Jebel Sahaba non sono state osservate tracce di ferite guarite nelle vittime, quindi questo massacro può essere interpretato come un unico atto di violenza, anziché come un drammatico epilogo di una serie di scontri. Secondo, nessuno si è preso cura di seppellire i corpi secondo una sepoltura intenzionale ma sono stati lasciati sparsi sul territorio. Il fatto di aver rinvenuto alcune armi costruite con una pietra rara nella zona come l’ossidiana, lascia supporre che gli aggressori provenissero da un’altra regione.
Qui si ferma, per non dilungarmi molto, l’indagine su altri siti. Cito, in breve, solo altri due esempi.
Quello delle popolazioni natufiane diffuse sulla costa orientale del Mar Mediterraneo, dove oggi c’è Israele. Già a partire dal Neolitico, erano dedite alla coltura del monococco (piccolo farro) e all’allevamento del bestiame.
I surplus di produzione sono un motore di disuguaglianza. Questo deve aver contribuito a creare attriti e rivalità che possono essere stati motivo di conflitto di inter-gruppo all’interno della stessa popolazione.
Francesco d’Errico, archeologo dell’Università di Bordeaux, autore del libro San Elders Speak, frutto di un lavoro sulla cultura materiale del deserto del Kalahari a nord del SudAfrica, ritiene che tra i san (abitanti del luogo) la violenza interpersonale e tra gruppi sia stato un elemento presente da sempre nelle loro culture ma che è stata col tempo mitigata con un escamotage. “Quando uno scontro era inevitabile si uccideva il capo informale del gruppo avverso, per dare un esempio senza far divampare uno scontro aperto e letale”.
Ma uno scontro come quelli descritti, può definirsi a tutti gli effetti una guerra ?
Nell’accezione del termine, noi oggi, presupponiamo che alla base debba esserci una società già stratificata con la presenza di strategia, logistica, addestramento, disciplina gerarchica, per poter rientrare nella definizione di guerra.
Per Isabelle Crevecoeur antropologa francese, prima firmataria dell’ultimo studio su Jebel Sahaba, pubblicato su “Scientific Reports” a maggio 2021, sulla base degli studi etno-archeologici, “ il conflitto descritto è molto simile ai conflitti del presente e del passato recente, e può essere considerato come guerra, se accettiamo una definizione che non sia molto restrittiva”. “Il punto è se faide, raid, azioni di vendetta tra comunità vengono percepite come guerra dai diretti interessati e da chi li osserva. A Jebel Sahaba, ritengo si sia svolto il più antico evento bellico documentato”.
I commenti sono chiusi.