L’ombra
Poesia scelta: L’ombra
Autrice: Maria Consiglia Alvino
Appartengo a un’ombra.
Questo è il luogo, non altro.
Un tacito sferzare di vento,
un nero fumo sull’asfalto,
scala di grigi nelle crepe.
Sempre legata al passo,
acqua alla pietra che scivola
cucita al sole, ai piedi.
Giro al variare di una luce,
esisto insieme alla chiarità
di un dio, sono opaco
specchio di odi, di qualche amore.
Ci sono nomi dentro ai giorni
impazziti, eppure tutto muore.
A cura di Emanuela Sica
Disperse le incertezze nel margine più lungo del pensiero, la concretezza si veste di un’ombra che, per alcuni versi, sembra essere un legame utopico eppure nulla è più stretta all’umanità di questa. L’ombra segue l’uomo sin dalla sua nascita. Lo catapulta nel mondo della luce per esistere. L’ombra stimola la concezione intima del proprio io, la sua capacità di immedesimazione nel corpo della vita, la sua fuga dall’illusione, la sua stasi nel dolore, la rielaborazione del terreno delle parole che ogni cosa avvolge e, spesso, stravolge. L’ombra diventa luogo di nascita e di cammino spinta dal vento, dal “nero fumo sull’asfalto” e dalla dimensione più diversificata dei dolori: “la scala di grigi nelle crepe”. Si materializza così l’essere umano e il suo contraltare, la sua essenza e la sua inconsistenza che si intrecciano per farne materia di bellezza e, altresì, di sofferenza. Nessuno dei due si sposta da quel luogo genetico, sarebbe possibile solo con la morte. Quando la falce della fine avrà preso l’ultimo ciuffo del grano e ogni cosa intorno sarà stata rapita dalla luce, allora anche l’ombra cesserà la sua teatralità concreta nel mondo. Forse l’ombra non è solo quella che è “sempre legata al passo” “cucita al sole, ai piedi” ma anche la trasposizione interiore del proprio sentire, la parte oscura di ogni essere umano. Che in quella accezione diventa lo specchio e anche il controcanto di qualche aspirazione, anche quella più recondita e intima che si fa insistente nell’animo e nell’indole umana.
“Quando s’accorser ch’i’ non dava loco / per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, / mutar lor canto in un ‘Oh’ lungo e roco” diceva Dante nel Purgatorio (V, 25-27). Qui l’ombra, a tema ma non esplicitata nella terzina, diventa addirittura ragione di distinzione di Dante dalle altre «ombre» che popolano il luogo, così che questi si fa notare.
Se ci pensiamo l’ombra o le ombre sono enti misteriosi e pieni di significati. Qualcuno direbbe che innegabilmente ci sono, ma al contempo hanno un’ontologia bizzarra. Insomma, sembrano essere quanto ci sia di più impermanente (non a caso sono usate come tipica metafora dell’umano) e strano (in questo caso potremmo fare l’esempio di un oggetto che si sovrappone a un altro cosicché avremo due oggetti, ma se un’ombra si sovrappone a un’altra, quante ombre abbiamo?).
Che le ombre siano importanti, al di là della dimensione concreta del corpo che la vive in simbiosi, lo si intuisce anche nell’arte, difatti, senza l’arricchimento di queste, gli oggetti sarebbero privi di spessore, mancherebbero di consistenza. Inversamente con ombre sbagliate gli oggetti diventano addirittura paradossali. Per questa ragione esse sfumano e rendono piacevolmente complesso il nostro universo ed altro non sono che una “proprietà relazionale come esito della relazione tra esso e un fascio di luce.”
Eppure se dovessimo far posto all’impostazione scientifica, saremmo costretti a negare l’esistenza dell’ombra che riesce ad “essere” solo nell’occhio di chi guarda. L’ombra, nella poesia di Alvino invece, esprime la poeticità del quotidiano, con la sua presenza ora rassicurante, ora minacciosa. È proprio ai piedi della poesia che l’ombra trova quell’accoglienza che sembra esserle negata dalla luce della scienza: l’essere nell’ombra è esso stesso l’essere del dire, del creare la traccia esistenziale dell’autrice che si muove con la delicatezza dell’arte e della filosofia nel suo viaggio insieme all’ombra e mai lontano da questa.
Perché è nello stretto rapporto con questa che si chiarisce l’indicibile e il nome dei giorni “impazziti” sia nella casa dell’amore (la vita) che in quella della “morte” (il fine vita).
Sovviene, durante la lettura, il mito platonico della caverna dove “gli uomini in catene non vedono se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete di fronte; sedotti dalle immagini sullo schermo, prendono per verità “vacuità prive di senso”, confondono la parvenza con la realtà, la sbiadita ripresentazione/rappresentazione con la luminosa e stabile identità. Sempre in attesa dell’alba chiara in cui finalmente vedremo Dio (e le sue varianti) faccia a faccia, la filosofia rinnova il gesto sacrale del sacerdote: squarciare il velo per scorgere al di là dell’apparenza ingannevole, portare alla “pianura della verità” quanto si cela nell’ombra menzognera.”
In effetti la verità greca (Aletheia) è un disvelare, un portare all’evidenza il nascosto, sfuggendo alla condizione impura delle immagini incantatorie. Nel caso dell’ombra platonica – skia – si condivide “l’ambiguo statuto dei riflessi, parvenze senza consistenza, abitatori del regime notturno in cui prendono vita illusoria le immagini evanescenti dei sogni”. Non è forse “sogno di un’ombra […] l’uomo” (Pindaro)? L’ombra è quindi rappresentata come un’entità minore, che si materializza per negazione rispetto all’oggetto che la proietta. Non ha corpo proprio, assume i profili del corpo che la proietta, non ha alcuna qualità peculiare, neppure colore. È, direbbe qualcuno, mancanza, di luce e di bene, portatrice di quel non-essere su cui si è scagliata la maledizione eleatica. Forse è per questo che gli schiavi incatenati preferiscono restare nella semi-oscurità rassicurante della dimora-prigione, piuttosto che affrontare i rischi della luce accecante e i pericoli della libertà.
In quest’ottica disambigua il gesto illuministico di Platone, per cui la salvezza si deve al coraggio intellettuale (sapere aude) che sconfigge l’ignoranza, ha il suo necessario e simbiotico rovescio oscurantista. L’ombra ha, inoltre, una peculiare valenza geometrica, tant’è che Plutarco racconta di Talete che riuscì a misurare l’altezza di una piramide, facendo ricorso all’astuzia, alla metis che era il vanto di Ulisse. Dalla lunghezza dell’ombra che si proiettava dalla piramide e dell’ombra portata di un oggetto di altezza nota, un’asta o Talete stesso, venne costruita una proporzione in cui, note tre misure, diventava semplice calcolare la quarta, ossia l’altezza che veniva ad essere ricercata.
In aderenza a T.S. Eliot – (Gli uomini vuoti) – anche la poesia di Alvino suggerisce che il “regno dell’ombra si stende fra l’idea e la realtà” dove la prima (l’ombra) è il testimone dell’esistenza. E quindi la poetessa è perché getta ombra, ombra che la segue, che situa il suo posto nello spazio. Dove c’è ombra, propria e portata, c’è oggetto, dapprima confusamente percepito: la sua conoscenza è inizialmente oscura, solo Dio può obbedire al precetto del metodo cartesiano, procedere a partire da idee chiare e distinte. Pensa, dunque è intrisa di ombre, cogita e quindi i suoi pensieri si mescolano all’oscurità del mondo. Quindi se nell’essere umano vi sono ombre, fin dalla nascita, che non lo rendono trasparente neppure a se stesso, è perché l’opacità risiede nelle cose, nelle incrinature del marmo come nelle complesse, cioè ripiegate, fibre delle monadi. Solo per Dio è sempre mezzogiorno: il suo occhio è l’unica fonte luminosa che percepisce senza gettare ombra.
Jung introduce nella psicologia analitica il concetto di “Ombra”, che classifica anche come archetipo. “L’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile; l’Ombra, la figura proiettata sulla parete, che insegue l’individuo anche quando si allontana, è uguale nella forma ma opposta nei movimenti e direzione. L’Ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha Ombra. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Bene e del Male, Positivo e Negativo. Gli aspetti della natura istintiva dell’uomo che, per incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e si uniscono a formare nell’inconscio una personalità parziale relativamente autonoma.”
Ed allora immaginare o solo ipotizzare di non possedere l’Ombra è semplicemente un’idea alquanto infantile e la maggior parte di coloro che la rifiutano ne sono consapevoli. Solo nell’oscurità più completa si può non avere l’Ombra. La luce che ci permette di conoscere completamente la nostra più intima esistenza, la nostra psiche, ci porta a conoscere, senza dubbio, l’Ombra. Quello che sembra oscuro e minaccioso, in realtà non fa solo parte di noi, ci definisce, ci circoscrive anche geometricamente e ci caratterizza. Per Jung solo l’Ombra occultata e allontanata risulta realmente minacciosa, l’Ombra riconosciuta e accettata, invece, è positiva, stimolante e fonte di nuova energia psichica. Ed è proprio questa accettazione che fa corpo nella poesia della nostra autrice quando dice “Appartengo a un’ombra…”
Biografia
Maria Consiglia Alvino è dottore di ricerca in Filologia Classica, specializzata in Letteratura greca antica; insegna lettere presso il liceo “V. de Caprariis” di Atripalda; collabora con varie riviste e blog di critica letteraria; fa parte della comunità poetica Versipelle. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche di ambito antichistico, sta preparando la sua prima silloge poetica. Vive ad Atripalda.
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