La corruzione è un male della vita

Nel diritto penale (artt. 318 ss. c.p.), è corrispettivo indebito per pubbliche funzioni. Da esso risulta leso l’interesse pubblico alla correttezza ed al buon funzionamento della Pubblica Amministrazione, la cui attività non può essere oggetto di un “baratto” tra essa ed un privato interessato.

Il corruttore dà o promette danaro o altra utilità.

Il corrotto è pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che si riceve l’indebito.

Ambedue sono “consorti” nello stesso illecito (concorso necessario ex art. 321 c.p.), che si realizza attraverso l’intesa espressa o tacita (“pactum sceleris”) e si consuma con l’elargizione (“datio rei”) o con la formalizzazione del relativo impegno (“obligatio”).

L’operazione è simboleggiata dalla ben nota “bustarella”, che spesso è sempre più “bustona”.

Finalità dell’illecito : a fronte di un prezzo abusivo, ottenere o far omettere o ritardare un atto dovuto, od anche far compiere un atto contrario ai doveri di ufficio.

Si ha “posticipazione” del reato allorché la promessa o l’elargizione siano successive ad atto già compiuto, quasi come premio della già ottenuta scelleratezza.

Le piccole regalie d’uso (ad esempio il cesto natalizio) o di cortesia (ad esempio un invito a cena), i cosiddetti “munuscula”, se per la loro modicità non possono avere il ruolo di corrispettivo, consentono di escludere la configurabilità del reato di corruzione, ma solo per il compimento di un atto di ufficio, mai per quello contrario ai relativi doveri.

La semplice “preoccupazione” del corruttore di arrecar disappunto al funzionario ove non ottemperi all’elargizione, non esclude il reato anche a suo carico.

Se, invece, egli venga effettivamente costretto o indotto dal funzionario disonesto, che abusi della sua qualità e dei suoi poteri provocandogli il “metus publicae potestatis”, si rimane nel confinante reato di concussione (art. 317 ss. c.p.) del quale è reo il solo funzionario estorsore ma non anche l’elargitore, che diviene in tal caso soggetto passivo di questo illecito.

La corruzione è un male sociale vecchio quanto il mondo.

Nell’antico Egitto (1358 a.C.), il monoteista Faraone Amenofi IV, denominatosi Akhenaton in onore all’unico dio Aton (il Sole), sostenuto anche dalla splendida sua moglie Nefertiti (dal reperto rinvenuto, il più bel volto dell’antichità), istituì, in luogo delle numerose divinità in precedenza adorate, il culto soltanto di Aton; ma ciò fece perdere ai sommi sacerdoti il beneficio delle continue offerte dei fedeli agli dei, sicché essi sopportarono a mala pena tale cambiamento voluto dal Faraone; la cui misteriosa morte, presto sopravvenuta, consentì, infatti, il pronto ripristino del fruttuoso politeismo.

Anche nell’epoca di Roma antica aleggiava forse il malcostume della disonestà. Se ne lamentava Cicerone (106-23 a.C.) pronunciando in Verrem, “de repetundis” e in Catilinam, (1,2), con connotazione moralistica, “o tempora o mores”!

E poi Dante (1265-1321 d.C.), tra le tre fiere che gli sbarrano il passo verso la salvezza dalla “selva oscura”, individua la cupidigia nell’emblematica lupa famelica dalla “natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo il pasto ha più fame che pria”. E per giunta “molti son li animali a cui s’ammoglia”.

Il sommo poeta la rappresenta come uno dei mali della società del tempo, concausa del suo periodo di disorientamento “nel mezzo del cammin di nostra vita”.

I giorni nostri (anni 2000) ci hanno regalato “tangentopoli”…, la cui pratica corruttiva, per la sua ingravescenza, rischia di tramutarsi, nell’opinione della collettività, in prassi burocratica da osservare come un normale adempimento per poter ottenere favori o anche riconoscimento di diritti; senza che nessuno se ne scandalizzi.

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