Carnevale si chiamava Vincenzo

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

Per introdurre l’argomento, ho preso a prestito il titolo di un bellissimo testo sui rituali del Carnevale in Campania a firma di Annabella Rossi e Roberto De Simone, frutto di una lunga e complessa ricerca interdisciplinare svolta dagli autori negli anni ’70 in collaborazione con alcuni docenti del gruppo di Ricerche antropologiche dell’Università di Salerno, tra cui Marialba Russo, Paolo Apolito, Enzo Bassano, Gilberto Marzano, con la partecipazione del locale Museo di arti e tradizioni popolari. Si trattava di rinvenire alcuni rituali campani ritenuti scomparsi fin dagli anni ’50 da studiosi di fama internazionale e di censire altrettanti cerimoniali drammatici con le loro varianti locali, come la Cantata dei Mesi, La morte di Carnevale, i balli processionali, i rituali di S. Antonio Abate, ecc. Il lavoro ha richiesto l’impegno di percorrere numerose piste di approfondimento nel campo dell’antropologia, dell’etnomusicologia, per sconfinare addirittura nella psicoanalisi. La fenomenologia del Carnevale campano si rivela infatti tra le più complesse espressioni della cultura popolare, in cui il collettivo e l’individuale, il mitico e il quotidiano si fondono in un linguaggio dotato di simbologie di notevole densità semantica e di grande impatto comunicativo. In virtù del riconoscimento di queste caratteristiche etnico-culturali, comuni a tutta la nostra tradizione carnevalesca, la Canzone di Zeza di Bellizzi irpino ha ricevuto importanti riconoscimenti alla Biennale di Venezia del 1995 e in una storica esibizione del 1996 all’Arena di Verona; nell’anno 2000 è andata in scena anche al teatro ‘Verdi’ di Pisa. Da qualche anno, mi risulta che sia stata avanzata richiesta all’UNESCO per il riconoscimento di questi rituali come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. È un’istanza che meriterebbe di essere perseguita ed incoraggiata dall’opinione pubblica e dalla politica locale, che tuttavia – scomodando Alessandro Manzoni – sono perennemente in tutt’altre faccende affaccendate.

A suo tempo fu un’innata curiosità per le attività musico-teatrali a farmi imbattere in questo filone di ricerca, rivelandomi insospettati orizzonti culturali ed antropologici. Il fatto è che, fin da piccolissima, ho sempre amato il Carnevale, forse perché mi riporta alla mente il tramestio della seta dei vestiti da Pierrot, fatina, principessa, ecc. che zia Elena, nota modista avellinese, mi faceva provare con qualche giorno di anticipo nel retrobottega del suo accorsato negozio (oggi si sarebbe chiamato boutique) nel centro storico di Avellino. Ero particolarmente sensibile a questo momentaneo cambio di identità prodotto dal travestimento: colori sgargianti, lustrini, accessori vari – che la divertita complicità di mia zia mi metteva a disposizione – esaltavano la mia fantasia di bimba mentre la successiva sosta dal fotografo per una posa da far circolare tra parenti ed amici ne fissava il ricordo nel tempo. Ancora oggi mi intenerisce vedere i bambini mascherati a passeggio mentre armeggiano con coriandoli e stelle filanti, purché non usino quelle volgari bombolette che vomitano fili di plastica colorata sulle strade e sugli arredi urbani, per poi finire nelle fogne ad alimentare le inesauribili riserve di rifiuti tossici dei nostri mari. Sorge il fondato dubbio che qualcosa di meglio si potrebbe anche inventare per festeggiare il Carnevale in un paese civile. Forse, guardando alle nostre illustri tradizioni della Canzone di Zeza e alla Quadriglia del Ball’intrezzo, per non parlare della Tarantella Montemaranese, di cui i nostri bambini e ragazzi ignorano l’esistenza, ci si potrebbe divertire in maniera più sana, creativa e meno banalmente consumistica.

In altri tempi, nell’ultima settimana di Carnevale, si udiva per le strade principali di Avellino il vocio cantilenante di un coloratissimo corteo in maschera che irrompeva festoso, componendo ad arte una quadriglia con tanto di archi floreali, nastri variopinti e tamburelli. La Canzone di Zeza, insieme al Ball’intrezzo – tra il delinearsi e lo svanire di coreografie eseguite su musiche originali del ‘600 – riempiva di allegria le fredde, ventose giornate dell’inverno irpino. Due compagini, tradizionalmente rivali, si contendono ancor oggi in città il primato dell’esecuzione di questi festosi cerimoniali: la contrada di Bellizzi, che vanta una tradizione più antica, e quella di Mercogliano, a sua volta particolarmente agguerrita e forte di una scrupolosa preparazione. Con alterne vicende, la tradizione del Carnevale irpino viene ancor oggi mantenuta, con l’estemporaneo coinvolgimento di un pubblico per lo più ignaro delle nobili e antiche origini di quanto viene rappresentato. Fino alla metà circa del secolo scorso, invece, i cittadini erano soliti esprimere puntigliosamente il proprio giudizio in merito alla qualità degli allestimenti scenografici e alla bravura dei figuranti. Sulla stampa locale (il Corriere dell’Irpinia e il Don Basilio di Fiorentino Cotone) comparivano dettagliati articoli in cui si entrava nel merito fin dei minimi particolari delle manifestazioni.

Ballerini e personaggi della Zeza esibiscono nomi di chiara derivazione romana, comuni ai riti Saturnali che segnavano la fine dell’anno vecchio e l’imminente arrivo della primavera. Tutti i figuranti recitano ancora oggi in grotteschi abiti femminili nella parte di Porzia (la sposina velata in abito bianco) della pacchiana Lucrezia (detta Zeza) e delle fioraie, in omaggio alla tradizione seicentesca che proibiva alle donne di esibirsi. Infatti, non è raro imbattersi in una vezzosa Purziella barbuta e nerboruta che partecipa al corteo nel suo improbabile abito da sposa. È ancora possibile osservare all’opera le scalette di legno a molla con cui le fioraie lanciano ciuffi di mimose ai passanti o a quelli che si godono lo spettacolo dai balconi, perché ricambino la cortesia con una congrua offerta in danaro da utilizzare per coprire le spese dell’allestimento. Tra i personaggi principali, la gestualità di Pulcinella – arcana, ripetitiva, sensuale – allude all’aratura dei campi, alla semina, alla mietitura: attività intese non solo nel significato reale di lavori campestri, ma anche come metafore della fecondità insita nel rinnovarsi della natura all’avvicendarsi delle stagioni e delle generazioni umane. Lo stesso passaggio dei ballerini della quadriglia sotto gli archi floreali simboleggia la nascita (attraverso il canale del parto) ma anche la discesa nel solco della morte; sono metafore che Jung definirebbe di un ‘linguaggio dimenticato’, che fanno di tali rituali un raro esempio di cultura arcaica popolare misteriosamente sopravvissuta nei secoli. Gli autori citati spiegano la persistenza di questi rituali nelle località periferiche della Campania (molto più che nella stessa Napoli) con il divieto assoluto – a suo tempo imposto in clima di Controriforma – di rappresentare in luoghi pubblici della capitale del regno scene volgari e sboccate, come finivano per diventare le cantate nelle osterie cittadine, generose di boccali di buon aglianico. Così i festosi cerimoniali si trasferirono in contrade periferiche e in provincia, dove il controllo delle autorità era meno frequente ed occhiuto e – fra alterne vicende – sono sopravvissuti fino ad oggi.

È noto che, lungi dall’esaurirsi in immagini e simbologie di epoca romana tardo-imperiale (come sopra descritte) il fascino multiforme del Carnevale pervade tuttora la musica leggera – dal samba brasiliano alla bossa nova di Vinicius De Moraes e ai ritmi caraibici – ma anche la grande tradizione lirica dei maestri romantici. Basti pensare alla scena del terzo atto della Traviata in cui Violetta, rivolgendo un ultimo sguardo alle strade di Parigi dove impazzano i festeggiamenti del Carnevale che tante volte l’ha vista protagonista, pronuncia le ultime parole di commiato alla vita: Addio, del passato, bei sogni ridenti, le rose del volto già sono pallenti. L’amore d’Alfredo perfino mi manca: conforto, sostegno dell’anima stanca.

Di ben diverso tenore è il Carnevale, anche questa volta parigino, descritto da Marcel Proust nella sua Recherche, intessuta di riflessioni filosofiche sull’arte, il tempo, la memoria e le emozioni, affidate alla penna dell’Io narrante Marcel. In questa autobiografia sognata, permeata di lunghe digressioni, è dato rintracciare le idee e i sentimenti più intimi dell’autore. Si tratta spesso di una memoria inconscia, involontaria, come nel caso della madeleine, il tipico dolcetto – offerto a casa della zia Léonie – dalla consistenza soffice e spugnosa che il protagonista inzuppa nel tè, sperimentando attraverso quella degustazione un evento istantaneo che gli fa rivivere il tempo perduto di lontane atmosfere e visioni infantili. Il tempo ‘lineare’ viene abolito: il passato è rinegoziato alla luce del presente, che a sua volta appare come una ragnatela di segni e simboli che a loro volta trovano significazione nel passato.

Era costume di Marcel frequentare le feste nei palazzi della buona borghesia parigina. Tale abitudine, acquisita fin da giovanissimo, gli aveva consentito di recepire attraverso l’osservazione degli altri invitati – che fossero amici di vecchia data o nuove conoscenze poco importa – una gamma pressoché illimitata di atteggiamenti, posture, stili strettamente identitari e perciò stesso indicativi della personalità di ciascuno. Per motivi che non sto qui a raccontare, ma che forse conoscerete per aver letto i sette volumi di cui si compone l’opera, Marcel si trova a disertare per molti anni i salotti della belle époque per poi accettare finalmente un nuovo invito proprio per una festa di Carnevale. L’atmosfera gli è familiare: gli ospiti si prodigano nel farlo sentire a proprio agio nella folla degli invitati, ma lui avverte una sorta di spaesamento, quasi un angoscioso presagio nel notare che tutti gli invitati hanno adottato un trucco che li invecchia nei tratti fisici e negli atteggiamenti. La prima cosa che gli viene da pensare è che si tratti di una festa ‘a tema’ e che di questo particolare lui non sia stato preavvisato, ma quando passa davanti ad una specchiera e vi vede riflessa la propria immagine si rende conto che il suo aspetto è simile a quello degli altri ospiti e comprende che il tempo trascorso dall’ultima festa è stato tanto lungo da lasciare tracce di vecchiaia sui volti di tutti. Neanche la forzata allegria del ballo di Carnevale vale a rendere ragione di una stagione della vita ormai trascorsa per sempre. Di essa resterà soltanto una mémoire da rivisitare in una ricerca del tempo perduto.

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