Te la devo un’altra vita, un’altra via
Poesia scelta Te la devo un’altra vita, un’altra via
Autore: Michele Carniel
Te la devo un’altra vita, un’altra via
dove le linee riescono a convergere
e piegare il cinismo delle curve,
la bieca svogliatezza di appartenersi.
Ti devo anche una manciata di respiri,
uno sguardo riempito di occhi
e quella mano che ha rapito carezze
– chissà se ricordi il tocco sottile – .
Di quel che c’è, se c’è, rimane poco
un domani raccolto tra i rami, un vetro
che ha smesso di raccontare la luce,
io che ti amo e non smetterei mai.
A cura di Emanuela Sica
Se provate a leggere questa poesia e, per un attimo, a chiudere gli occhi “vedrete” un filo rosso che si dipana attraverso le parole. Si allunga quel tanto che basta, tira e stringe sul finale per annodarsi nella simultanea esistenza che si cerca di attrarre, prova a fare di quello srotolamento emozionale, cucitura di sensi e sentimenti, un tutt’uno con l’anima di chi scrive. Lì dove si infila il trasparente ago sottile, ma pieno di consistenza e vitalità, di afflato amoroso, pulsa il cuore di chi ha, in quell’antro di muscoli e sangue, il desiderio, non solo passionale ma d’appartenenza, della donna a cui sente essere legata la sua anima, verso cui protende quella sua materiale e immateriale esistenza di uomo e di amante. Le parole scelte, si muovono comunque con una “vita” di delicata sostenibilità, non sono pesanti ma tendenzialmente aree, si motivano a vicenda e si sostengono come in un abbraccio che parla una sola lingua “sentimentale, affettiva, emotiva”. La lirica dovrebbe essere anche soave “piuma” e non solo pesante “macigno”. Qui le due entità scompaiono per trovare un equilibrio in positivo sulla bilancia eclettica della poesia.
In quella vita, anelata come respiro di nuova esistenza, si muove il mondo non soltanto superficiale ma profondo e complesso dell’autore che prova a far convergere linee destinali che sembrano non incontrarsi mai, che prova a comprende il cinico movimento del mondo, che appare come forza che stacca e non attrae, che svogliatamente rifugge dalla necessaria ma cieca volontà di essere una cosa soltanto, mentre l’appartenenza si sfila e si ricuce quasi inconsapevolmente.
Allora cosa può fare l’uomo, nella pelle di un poeta, se non dedicare all’amata ogni cosa gli appartenga? Il pegno da pagare per quel “miracolo d’amore” potrebbe essere qualsiasi cosa, persino a privarsi della stessa vita, del respiro, degli occhi, delle mani, in un vortice così complesso eppure (per lui) così “naturale” di “destrutturazione” dell’uomo per “costruire” la donna. Svestirsi completamente, rivelando le nudità più tristi dell’io, di quello che si è, della poca “essenza” che si ha “senza” quella vita a cui ci si sente quasi “carmicamente” legati, in un circolo di emozioni profonde e necessarie alla sopravvivenza. In questo elemento preponderale di necessità, di legame forte che annulla ogni altro inserimento dall’esterno, la dimensione del proprio futuro viene vista come aspirazione a riempire il vuoto del presente che è poca cosa in assenza di lei. Si evolve la storia nella più intima consapevolezza che ogni cosa si potrebbe donare per tuffarsi a capofitto nel mare calmo e tempestoso dell’amore.
Dove ci si potrebbe anche perdere, annegare, per provare la magia d’essere avvolti da quel liquido salato eppure magico che ogni cosa attrae e rinnova. Questa poesia, come dice lo stesso autore “è sintesi del totale annullamento di un uomo per la donna che ama, a cui donerebbe quel poco che ha della propria vita, “accontentandosi” di amarla per sempre.” Allora la domanda è: ci troviamo di fronte una “dipendenza affettiva”? La risposta non è semplice. L’autore, nella narrazione poetica dei versi (non sappiamo quanto autobiografici o meno, non importa) non pone la richiesta soggettiva di riavere in dote amore, non pretende che dai doni elargiti spontaneamente si abbia una controprestazione a livello affettivo. Certo vi è la necessaria aspirazione di appartenersi ma non credo sia quello il punto nodale della questione. A me pare che la poesia si ponga in un punto limite, sul margine borderline rispetto all’involuzione dell’amore. Il protagonista di questa “frammentazione esistenziale” e “riempimento conseguenziale” del destinale soggetto amoroso mi appare come un’esule del suo tempo che potrebbe amare da lontano la sua terra d’origine, la sua donna: quella torba lirica, fertile, in cui ha piantato la sua radice esistenziale e che sarebbe ugualmente contento di perdersi e ritrovarsi in quell’amore. Eppure, come ogni cosa posta “in bilico” anche in questo caso le sfumature sono labili. Per un nonnulla si cade nell’altro lato, in quello volgarmente noto come “mal d’amore” una forma patologica d’amore (love addiction) nella quale l’individuo dedica completamente tutto il suo corpo e tutta la sua mente all’altro. Il partner scelto si trasforma in una “droga” alla quale la dipendente deve continuamente attingere per riempire un vuoto affettivo presente fin dall’infanzia. La ricerca è indirizzata a un irrefrenabile bisogno affettivo, tanto profondo da rendere, spesso, “ciechi” nella scelta del partner e disperati/e al punto da elemosinare briciole d’attenzione spesso dalla prima o dal primo venuto. Volendo dare anche una lettura mitologica/filosofica del testo dirò che la protagonista al femminile appare come la “metà originaria a cui si tende”, per ricongiungersi ad essa, anche se non prettamente nell’accezione materiale ma più spirituale. Quella che, per intenderci, la si trova esplicitata nel Simposio di Platone (mito dell’Androgino). Si narra che, all’origine del mondo, esistessero maschi, femmine e androgini dotati di entrambi gli organi sessuali. Quando gli uomini vollero scalare il cielo, Zeus li punì spaccandoli in due: «Finalmente Zeus ebbe un’idea e disse: “Credo di aver trovato il modo perché gli uomini possano continuare ad esistere rinunciando però, una volta diventati più deboli, alle loro insolenze. Adesso li taglierò in due uno per uno, e così si indeboliranno e nel contempo, raddoppiando il loro numero, diventeranno più utili a noi.» In questo modo gli esseri umani furono divisi e s’indebolirono. Da quel momento – spiega Aristofane – essi sono alla “ricerca della loro antica unità” e della perduta forza che possono ritrovare soltanto unendosi sessualmente. Da questa divisione in parti, infatti, nasce negli umani il desiderio di ricreare la primitiva unità, tanto che le “parti” non fanno altro che stringersi l’una all’altra, e così facendo arrivano a morire di fame e torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare che gli uomini si estinguano, manda nel mondo Eros affinché, attraverso il ricongiungimento fisico, essi possano ricostruire “fittiziamente” l’unità perduta, così da provare piacere (e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere. «Dunque al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore». Sarà questo il caso? Non ci è dato saperlo, le parole spesso nascondono più di quanto vogliano dire.
BIOGRAFIA
Michele Carniel, nasce e vive a San Donà di Piave, dove attualmente vive con la moglie. E’ progettista navale e lavora a Marghera (Ve). Ad ottobre 2019 ha pubblicato per Sillabe di Sale editore la prima silloge “Tra il Piave e la luna”. Nel 2020, 3 sue poesie sono state selezionate per l’antologia di poeti contemporanei “Kairos” (CTL editore).
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