San Valentino / Qualcosa di noi due resterà
(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.
– di Mirella Napodano –
Per S. Valentino vorrei che – invece di cioccolatini – si parlasse d’amore sommessamente, come in un accordo in si minore. Tanto per intenderci, lo stesso in cui fu composta da Franz Schubert la Sinfonia n. 8 D759, meglio conosciuta come l’Incompiuta. Forse perché in qualche modo ogni amore è incompiuto. Si dovrebbe adottare una tonalità dolce, solenne e struggente come una canzone di trovatori, simile a quelle atmosfere rarefatte che a suo tempo Herbert Pagani seppe far rivivere in un brano – oggi quasi dimenticato (si era nel 1978) – che faceva da sigla dello sceneggiato televisivo Marco Visconti. Anche il testo era pieno di suggestioni dell’amor cortese (che non sta per ‘gentile’ ma più semplicemente per ‘di corte’):
Cavalli ricamati sull’arazzo del passato,
passato che ritorna su un accordo in si minore.
Leggende dove Guerra è sempre sposa dell’Amore,
amore che tu insegui e non raggiungi quasi mai.
Io sono nato il giorno che ho veduto il tuo sorriso
e fui ferito a morte quando ti hanno rubata a me.
Le acque dei torrenti sono lacrime d’amore
e ogni lacrima mi dice: meglio vivere infelice
che felice senza averti vista mai.
Vivrò tutta la vita per cantare il nostro amore
ed ogni trovatore che il mio canto sentirà
lo porterà lontano, oltre monti ed oltre mare.
Il tempo può passare, questo canto durerà.
E volerà leggero come polline di fiore
per secoli d’amore altri amori sveglierà.
E immagino gli amanti che lo cantano a memoria
e poiché saranno tanti sull’arazzo della storia
qualche cosa di noi due resterà.
Mi si accuserà di estremismo romantico, but I’m not the only one. Infatti sono in buona compagnia, se lo stesso concetto di amore radicale che si interrompe viene lucidamente espresso da Fabrizio De André negli ultimi versi del testo della canzone Giugno 73, pubblicata in un album del 1975: Io mi dico: è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati.
Ma per tornare alle diafane atmosfere dei due amanti medioevali, ne troviamo un altro prezioso esempio nei personaggi da fiaba descritti negli impareggiabili versi dell’antologia personale di Pablo Neruda: Todo el amor, dedicati alla leggenda di Pelleas e Melisanda:
Melisanda, la dolce, ha smarrito la strada.
Pelleas, giglio azzurro di un giardino imperiale,
tra le braccia se la porta come un cesto di frutta.
“Io andavo per il sentiero, tu venivi per esso.
Il mio amore cadde tra le tue braccia
il tuo amore tremò nelle mie.
Da allora il mio cielo di notte ebbe stelle
e per raccoglierle la tua vita si fece fiume”…
…”Tra le tue braccia s’impigliano le stelle più alte.
Ho paura. Perdonami se non sono giunta prima.”
E adesso che siamo entrati nell’atmosfera giusta, possiamo sbirciare nell’arazzo del passato per scoprire, tra le più belle storie d’amore, quella di Abelardo ed Eloisa, ovvero l’amore idealizzato. Il filosofo e teologo Pietro Abelardo e la giovane Eloisa si incontrarono per la prima volta nel 1116, lei appena sedicenne lui quasi quarantenne, quando lo zio della ragazza, accortosi delle sue doti, decise di farle prendere lezioni dall’intellettuale più famoso del momento. Bello e talentuoso, Abelardo godeva di fama e prestigio fra tutti gli universitari di Francia. Ecco come lo descrive la stessa Eloisa in una lettera di alcuni anni dopo:
Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via. Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti rari per un filosofo.
Nella sua biografia, intitolata: Storia delle mie disgrazie, Abelardo a sua volta così descrive l’amata:
Eloisa aveva tutto ciò che può sedurre gli amanti. Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all’amore; lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, erano più numerosi i baci che le frasi…In una lettera di Eloisa scritta in tarda età, dopo che dal loro amore era nato un figlio e lo scandalo aveva colpito Abelardo fino a farlo evirare per punizione, la donna così si esprimeva: Mio signore, anzi padre; mio sposo anzi fratello, ti ho amato di un amore sconfinato… il mio cuore non era con me ma con te.
Gli amanti furono seppelliti – a vent’anni di distanza l’uno dall’altra – nella stessa tomba, in un eremo donato alle monache dallo stesso Abelardo. Una leggenda del tempo racconta che le due salme, esaminate anni dopo, sarebbero state ritrovate abbracciate.
Un altro amore che va ben oltre la vita è quello di Paolo e Francesca. La loro storia è arcinota, perciò non mette conto raccontarla, ma è interessante notare come ci sia un elemento comune tra la loro vicenda e quella di Abelardo/Eloisa: lo studio delle ‘belle lettere’ come occasione di incontro, la cultura come elemento che induce al sentimento d’amore (per Paolo e Francesca, galeotto fu il libro che narrava la contrastata storia d’amore di Ginevra e Lancillotto). E proprio come i due amanti che li hanno preceduti, Paolo e Francesca continuano ad amarsi oltre la morte – come possono e fino al punto che viene loro consentito – perfino nel girone infernale dei lussuriosi, per cui appaiono a Dante ancora nel pieno della loro passione.
E tra i casi di amori contrastati, come non annoverare quello di Romeo e Giulietta, celebrato per primo da Shakespeare e poi attraverso innumerevoli opere musicali, teatrali e cinematografiche. La vicenda ha assunto col tempo un grande valore simbolico, fino ad essere considerata l’archetipo stesso del rapporto amoroso avversato dalla società. L’odio feroce che covava tra i Montecchi e i Capuleti nella Verona rinascimentale è lo scenario violento che fa dire a Giulietta una frase che io considero cruciale per ogni rapporto amoroso: Perché sei tu Romeo? Cioè, perché dovevo innamorarmi proprio di te? Quasi che un destino cinico e baro ci spingesse tra le braccia della persona sbagliata, ci inducesse ad amarla anche a costo di immani, reciproche sofferenze di cui è piena la letteratura di tutti i tempi.
Diverso è il caso di un altro amore contrastato per motivi di ipocrita convenienza, celebrato da Giuseppe Verdi nella Traviata. Qui ci troviamo in piena epoca romantica, nella Parigi delle grandi feste danzanti della Belle époque. Fra Violetta e Alfredo è nato un sentimento autentico e delicato, a dispetto delle abitudini piuttosto disinvolte e goderecce della ragazza, che non sfuggono al severo ed autoritario padre di lui. Giorgio Germont non esita infatti ad intromettersi nella loro relazione convincendo la donna a rinunciare a quel legame, che ormai è già di dominio pubblico da quando i due amanti hanno preso a convivere in una villa di campagna. Ed è proprio in quel giardino che Violetta pronuncia una frase tra i singhiozzi, poche parole come un inno d’amore disperato: Amami Alfredo! Amami quanto io t’amo, la cui drammaticità sfugge al compagno, che ascolta inebetito senza chiedere spiegazioni. Basterà questo non detto fra i due innamorati a determinare il tragico epilogo della loro storia.
In un contesto completamente diverso, la relazione tra Hannah Arendt – filosofa, politologa e giornalista ebrea – e il suo maestro Martin Heidegger si colloca su un piano che potremmo definire più cerebrale. Hannah aveva solo diciotto anni quando giunse a Könisberg da Marburgo per prendere lezioni dal filosofo, all’epoca trentacinquenne, nel seminario invernale dell’anno accademico 1924. Qualche mese dopo i due erano già amanti. In una lettera del 21 febbraio 1925, Martin Heidegger così si esprimeva:
Perché l’amore è ricco oltre ogni misura rispetto alle altre umane possibilità e risulta per chi ne è coinvolto un peso così dolce? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo pur rimanendo noi stessi. Vorremmo poi ringraziare colui che amiamo e non troviamo niente che sia sufficiente a farlo. Possiamo soltanto essere riconoscenti nei confronti di noi stessi. L’amore trasforma la gratitudine nella fedeltà verso noi stessi e nella fiducia incondizionata verso l’altro. Così l’amore accresce costantemente il suo mistero più profondo.
Il rapporto clandestino va avanti per mesi, con tutte le difficoltà e il tormento che la circostanza comporta. Tuttavia, nel successivo anno accademico, la Arendt si trasferisce ad Heidelberg, dove va a laurearsi con il filosofo Karl Jaspers con una tesi sull’amore in S. Agostino. Vi sono poi sporadici contatti tra i due che testimoniano il protrarsi della loro storia d’amore, fino al matrimonio di Hannah con Gunther Stern. Nei Diari di Hannah, pubblicati molti anni dopo, si leggono frasi come questa:
La dolcezza è nella tua mano e nella mia quando la vicinanza bruscamente ci fa prigionieri. La malinconia è nel tuo sguardo e nel mio quando la gravità ci accorda l’uno nell’altra.
La storia di Esmeralda e Quasimodo ha un’origine puramente letteraria dal romanzo Nôtre-Dame de Paris di Victor Hugo – genialmente trasformato in opera musicale da Riccardo Cocciante – per cui il suo rapporto con la vita reale trova risvolti puramente simbolici. Si tratta di un amore non propriamente corrisposto, come dire una tipologia (non infrequente per la verità) di seduzione che potremmo definire involontaria. Esmeralda è una ragazza gitana che allieta i passanti danzando per le vie di Parigi, al cospetto della cattedrale di Nôtre-Dame. Vive con Clopin, re degli zingari, cui fu affidata in fasce dalla madre morente nella misteriosa Corte dei miracoli, luogo di ritrovo di clandestini, vagabondi e briganti. Per la sua bellezza è al centro delle attenzioni, oltre che di Quasimodo – il gobbo e deforme sacrestano campanaro – anche dell’arcidiacono Frollo, che nutre per lei una concupiscenza incontrollabile e del capitano Febo, per il quale sarà solo una distrazione. Vedendo danzare Esmeralda, Quasimodo rimane folgorato dalla grazia della sua bellezza e si commuove, ma questo sentimento autentico e sincero è destinato a restare a lungo chiuso nel fondo del suo cuore e si concluderà tragicamente quando, alla morte della giovane zingara, egli sarà l’unico a piangere sul suo corpo.
Come cavalli ricamati sull’arazzo della storia, i grandi amori sfrecciano nel panorama della vita umana sollevando nubi di polvere azzurrina, che confondono in lontananza i contorni dei monti e delle foreste con il fluire dei pensieri degli uomini.
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