UN AMORE, UN KILT
Ogni tanto apro la porta di una delle mie stanze preferite, il guardaroba. Cerco capi lasciati “in pausa” per qualche stagione. Confesso di avere una collezione di capi degna di un museo del costume contemporaneo. Talvolta me ne vanto, talvolta mi imbarazza, ma so sempre come darmi, o come dare, una spiegazione: vita intensa, mondo della moda, del lusso, dello spettacolo e dello sport, occasioni, opportunità, storie di vita e di affetti. Il mio guardaroba è come la mia libreria: ciascun pezzo è un racconto nel racconto e va conservato a qualsiasi costo. Ogni capo, ogni accessorio, ogni oggetto parla di me e della mia vita. Faccio parte di un gruppo di instancabili e romantici sognatori nostalgici, proiettati nel futuro, e non me ne vergogno.
Questa mattina la mia attenzione si focalizza su due paia di pantaloni quasi dimenticati: stile inglese, classici, ben tagliati. Li provo e mi stanno ancora a pennello, mi ripropongo di considerarli come un’alternativa ai leggins che ormai sono una divisa decisamente omologata. Mi immagino con un look perbene, con quei pantaloni, un maglioncino, uno stivaletto e un cappottino classico, ma alla fine esco di casa di corsa, per l’ennesima volta, con jeans, maglione, sneakers e piumino modello omino Michelin.
Giornata intensa. Prima di tornare a casa mi viene voglia di fare due passi e di raggiungere la stazione della metropolitana di San Babila percorrendo strade alternative al solito corso Vittorio Emanuele. Tra un pensiero e l’altro, mi ritrovo in Via S. Clemente e vengo attratta dall’insegna di un negozio rigorosamente “English style”. Una vetrina dal sapore molto britannico, la celebrazione del “Royal style”, un fascino irresistibile e senza tempo. Maglioni in lana shetland, sciarpe e camicie in tessuti scozzesi, montgomery, accessori e scarpe di storici brand inglesi. Il suo nome è “Royal Britannia Boutique”. Bellissimo.
Fatalità, proprio oggi mi imbatto in un simile negozio. Stamattina, dopo tanti anni, ho riposto la mia attenzione su due capi in stile inglese lasciati nel dimenticatoio e guarda che coincidenza! Osservando bene la vetrina, rimango irrimediabilmente attratta da un indumento che non avrei mai più immaginato di prendere in considerazione: il kilt scozzese. Ce ne sono tantissimi all’interno, in svariate combinazioni di colore, dalle più classiche alle più azzardate. Non resisto, decido di entrare, voglio toccarli e forse anche indossarne uno per vedere che effetto mi fa. Lo portavo quando ero bambina, negli anni ’70 rappresentava uno stile, uno dei look più amati dalle mamme, nelle scuole, nei collegi. Il kilt mi evoca una serie di emozioni, devo assolutamente approfondire e capire se si tratta di un capo “must have” al quale non posso assolutamente rinunciare.
La titolare del negozio, insolitamente, mi lascia curiosare e si dedica ad un altro cliente, sicuramente abituale, che sceglie tra calze scozzesi di lana e seta. È una esercente molto cordiale e di classe, lo noto subito. Mi colpiscono i suoi occhi profondi, ma ancora di più il suo modo di porsi, la sua cortesia, la lentezza e il garbo con il quale si rivolge a quel cliente, anche lui un signore d’altri tempi. Penso subito che un posto come questo attira esclusivamente clienti ricercati, poco modaioli, amanti del classico e della tradizione. La signora rimane delicata anche con me, non mi aggredisce di informazioni, mi lascia guardare e toccare e si limita a consigliarmi un eventuale colore di quel kilt che non vedo l’ora di indossare.
Il cliente termina il suo acquisto, salda il conto e se ne va. Rimango sola con Enrica, questo è il nome della proprietaria del negozio. Il kilt è un capo stupendo nella sua semplicità, lo indosso, mi dona e decido di acquistarne uno. Nel frattempo, noto che Enrica indossa un maglione in cachemere di un azzurro intenso, e non esito a farle un apprezzamento per come le dona. Lei si ferma, mi guarda, si appoggia al bancone e mi confessa che quel capo era di suo marito che non c’è più. Rimango colpita, esprimo il mio dispiacere. Enrica inizia a raccontarmi la sua storia mettendomi il cuore in mano.
“Lo indosso ogni tanto perché mi fa sentire meglio. Mio marito è mancato a marzo 2021. Nel giro di pochi mesi ho perso mamma, papà e lui. Ma non sono morti di Covid. Sa, ormai si pensa sempre a quello. È stata ed è molto dura, una prova dolorosissima, un cambiamento di vita radicale dal quale non riesco ancora a riprendermi. Ho due fratelli, bravi, ma non ho figli. Per mio marito io ero tutto e lui lo era per me. Sembra banale, ma è stato qualcosa di immenso. Un amore che pensavo fosse lo stesso per tutte le coppie. E invece ora so che non è così. Sono stata fortunata. Mio marito era inglese e questo era il suo negozio.”
Enrica mi stupisce, non me lo aspettavo. Anche se avevo già capito di essere entrata in un posto speciale, sembrava una persona chiusa, sulle sue, molto “milanese”. E invece la sua anima parla oltre qualsiasi voce, il suo sguardo diventa sempre più vero e ed io decido di ascoltarla e di farmi ascoltare. Ma prima le chiedo come si sono conosciuti.
“Ci siamo conosciuti circa trentacinque anni fa. Io facevo la modella per un’amica pittrice, posavo per lei. Un giorno mi propose di farmi delle polaroid, in modo che potesse andare avanti con il lavoro anche quando io non potevo posare in studio. Una sera, a fine giornata, la mia amica decise di andare a bere un drink qui in centro da sola e, mentre sistemava la sua cartella di lavoro, tutte le polaroid caddero e si sparsero sul pavimento del locale. In quel momento, nel tavolo accanto a lei, c’era un gentiluomo che immediatamente si prodigò per aiutarla a raccoglierle tutte. Alla fine i due scambiarono qualche parola e – mi disse poi la mia amica – lui le chiese chi fosse la donna in quelle foto. Il seguito lo può immaginare.”
A questo punto, percepisco un’onda di energia che non riesco a gestire, se non sedendomi su uno dei quattro puff del negozio. Enrica si siede sul bancone di fronte a me e, occhi negli occhi, e intraprendiamo un viaggio di umanità autentica fatto di empatia, di profondità, di accenni a racconti di vita, di comprensione istintiva, di solidarietà femminile senza eguali. Da estranee, entriamo in un contatto senza precedenti, condividiamo emozioni, ricordi, sensazioni intime, in un modo così naturale e poetico. Il racconto di come ha conosciuto suo marito mi sembra l’incipit di un romanzo. La parete dietro al bancone è ricoperta da immagini della famiglia reale e Enrica si commuove. Alla fine, dopo esserci ricordate che dovevo pagare il conto, mi saluta con intensità, con gli occhi lucidi, e mi dice: “La ringrazio, lei oggi mi ha aiutata tanto, mi ha fatto sentire bene”. Beh, sinceramente è stata un’esperienza speciale anche per me.
Non avevo mai percorso quel tratto di strada per andare a prendere la metropolitana di San Babila ed erano anni che non intercettavo nel mio guardaroba i pantaloni scozzesi identici a quelli che Enrica vende nel suo negozio. Bellissimi. Doveva andare così. Adesso ho anche il kilt. Enrica è felice che io lo abbia scelto ed io sono felice di aver trascorso del tempo con lei. Nel nostro prossimo incontro le porterò un libro e lei mi offrirà una poesia scritta da suo marito.
Non è finita. Sulla strada di casa vengo raggiunta dalle note di uno dei miei compositori preferiti: Satie. In un’atmosfera surreale, in una Milano fredda, svuotata, stanca, provata dalla pandemia, la musica di Satie e il sorriso del giovane musicista cileno, di fronte alla Basilica di San Carlo al Corso, sono stati la dolce colonna sonora della fine di una giornata speciale, insolita, intensa.
Grazie Franco, per concedermi l’opportunità di condividere con voi questi momenti di rara umanità.
Da Milano, al tempo del Covid.
I commenti sono chiusi.