ADDIO 2021: FINGIAMO CHE ANCHE IL TEMPO ABBIA I SUOI GIRI DI BOA…
Il 2021 è stato un altro anno orribile a causa dalla pandemia. Ma anche un anno di speranza grazie ai vaccini. Che non hanno ridotto i contagi, come stiamo registrando in questi giorni con l’impennata della quarta ondata e l’incognita della variante Omicron, ma hanno di certo salvato decine di migliaia di vite e ridotto in larga misura le ospedalizzazioni.
È stato un anno orribile per il pessimo esempio offerto dai No Vax, i maggiori responsabili del mancato completo contenimento della diffusione del Virus. Ma anche per tanti comportamenti lassisti individuali e collettivi rispetto all’esigenza d’uno stile di vita più rigoroso nel contesto drammatico della pandemia.
Scrivere ancora di Covid in occasione dell’anno che se ne va sarebbe ripetitivo, quindi noioso. Mi scuso con i lettori, allora, se ripropongo, per la circostanza, una mia riflessione di qualche anno fa, sorprendentemente attuale proprio in riferimento alla disinvoltura cui troppo spesso la nostra varia umanità si abbandona, forse nell’illusione che tutte le cose si risolvano da sé, così per miraggio della natura, senza il necessario contributo individuale e collettivo dei cittadini. Di noi cittadini che continuiamo a ritenere di “avere sempre ragione”.
– di FRANCO GENZALE –
Meno male ch’è finito. Meno male che il 2021 se ne va, con tutte le sue celebrazioni. Di un anno così non sappiamo che farcene: buttiamolo via dalla finestra, questa notte a mezzanotte, assieme a tutte le cose vecchie e brutte che non vogliamo ci appartengano più.
Scambiamoci intanto gli auguri. Facciamolo ancora. Fingiamo ancora un momento che anche il tempo abbia i suoi giri di boa e che tutto, d’incanto, possa cambiare. Facciamolo guardando alla realtà che ci circonda; guardiamoci intorno con la giusta dose di disincanto. Troviamo il coraggio di farlo guardando anche alle nostre responsabilità individuali.
Cosa ci resta da ricordare di questo brutto anno che sta per andarsene? Quanti passi, e quali, abbiamo fatto nella nostra quotidiana avventura collettiva? Quante, e quali, sono le novità del nostro vivere civile?
Se lo chieda, per un po’, ognuno di noi. Ed ognuno provi a darsi una risposta. Un fatto è certo: sono tante le cose che vorremmo non si ripetessero mai più. Perché il 2021 sta per chiudersi esattamente come è iniziato: tra crolli antichi, improvvisazioni eterne, disservizi secolari e furti di speranza inarrestabili. Una vergogna.
Una vergogna storica che viene da lontano. Ma una vergogna presente. A chi servire il conto? Certo ai politici. Certo a quelli che hanno comandato e comandano, quelli che trattano il bene pubblico ed i servizi pubblici come se fossero patrimonio privato. Certo a coloro che negli ultimi anni hanno massacrato l’ambiente ed il tessuto sociale e perfino la speranza di questa disgraziata provincia irpina.
Ma il conto va servito anche ad altri. Anche a quelli che questo scempio hanno sostenuto e su questo scempio hanno allignato. Li avete presenti? Sono quelli che non conoscono regole, che usano le città ed i paesi di questa nostra Irpinia e di questa nostra Campania come una immensa discarica; che calano dappertutto come gli Unni, che distruggono, occupano, privatizzano tutto ciò che trovano. Sono i “cittadini”. Quelli che “hanno sempre ragione”. Sono loro. Cioè noi. (E qui calza a pennello l’esempio – a proposito di Covid – dei comportamenti di tanta, troppa gente, anche al netto dei No Vax, che ha voluto sfidare il Virus disattendendo le regole elementari, noiose quanto si vuole, ma utilissime nella guerra alla pandemia).
Questo 2021 che ci lasciamo alle spalle è costellato di molti, troppi insuccessi della politica centrale perché si possa fornire alibi a chicchessia. Gli insuccessi sono nei fatti, sono documentati dalle cronache quotidiane. Sono impressi nei numeri della disoccupazione, nell’affanno delle nostre aziende, nelle buste-paga sempre più leggere, nella sfiduciata solitudine dei nostri giovani costretti ad andar via: spesso, come nel “Viaggio” di Kafka, ad andar via senza meta, “… ovunque, purché via da qui”.
Sono, questi, i segni di un fallimento che sarebbe riduttivo, ingeneroso e fuorviante addebitare solo alla politica: perché in crisi è tutto il nostro sistema, e il fallimento è il prodotto di questa crisi.
In questo fallimento non si salva l’antipolitica. Non si salva la demagogia gridata d’un sindacalismo esasperante che tarda ad innovarsi. Non si salva neanche l’atteggiamento presuntuoso e spocchioso d’un certo ceto imprenditoriale, che sembra aver perso la memoria dei tanti, troppi benefici ottenuti dalla classe dirigente politica puntualmente tradita, come per contrappasso, dai mostri dell’assistenzialismo che essa stessa ha creato. E non si salva, infine, nemmeno il furore populista e moralistico del quale noi giornalisti spesso e a ragione veniamo accusati dai politici.
Il nostro fallimento collettivo è simbolicamente espresso dal senso di questa metafora. Una volta un giovane amante lasciato alle aspre pene dell’amore e del tradimento si accorse all’improvviso di essere rimasto impigliato nel filo del telefono come al fatidico cordone ombelicale. Per giorni e giorni aveva atteso invano uno squillo, lei che chiamasse. Lei non chiamò e lui, quasi impiccato al “filo ombelicale”, si autotelefonò. Dalla sua stessa casa si consolò di cento e cento squilli. E immaginò l’amata dall’altro canto. E non rispose. E fu felice, così, di punirla. Un esercizio cinico di cinica freddezza.
Siamo un po’ tutti in una barca analoga. Usciamo da un altro anno di abbandoni nemmeno nobilitati dalle stimmate dell’amore. Sono abbandoni civili, i nostri. E nessuno ci telefona per chiederci scusa o per offrirci ragioni. Facciamolo noi.
Autotelefoniamoci. Forniamo scuse, spiegazioni, promesse. E, soprattutto, assolviamoci.
Ma adesso basta. Per un giorno, basta. Scambiamoci gli auguri. E coltiviamo la speranza.
Sforziamoci di credere – diciamolo ancora – che anche il tempo abbia i suoi giri di boa. E che le cose, finalmente, possano cambiare.
Buon Anno.
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