IL PAPÀ DEL TAVOLO ACCANTO

“Se diventi ancora più bravo non ti faccio fare nemmeno le scuole elementari. Solo calcio! Così vai in serie A e diventiamo tutti ricchi”.

Ho i brividi, mi sono ustionata la lingua con la tisana bollente per mandare giù ciò che ho ascoltato. Queste parole sono state pronunciate qualche sera fa da un papà al figlio di quattro anni, in un locale di spritz e aperitivi nel cuore di Milano.
Dopo questa dichiarazione surreale (per usare un eufemismo) il papà si è rivolto di nuovo al figlio e gli ha detto: ” Amore, non si dice “a me mi”, si dice “a me piace”. Lo sai che ci tengo”.

Ha fatto bene a correggerlo, ma dopo quella frase inquietante in merito all’inutilità della scuola elementare, l’appunto sulla regola grammaticale è suonata decisamente finta e fuori luogo.

L’ha pensata così anche la loro amica, una elegante signora seduta con loro al tavolo la quale, per superare l’imbarazzo ed evitare di approfondire, ha pensato bene di spostare la conversazione altrove e di ordinare un flute di champagne accompagnato da ostriche e da altre prelibatezze. “Cin cin, Buon Natale ragazzi!”

Nel frattempo, il bimbo si è messo ai comandi dello smartphone e il padre, totalmente assente dal punto di vista della condivisione e del controllo dei contenuti, ha continuato a raccontare cose decisamente prive di qualsiasi interesse.

Mentre parlava a sé stesso, la signora (volutamente distratta) sorseggiava il suo champagne e si deliziava con le ostriche osservando il bambino che, come un nerd, era ipnotizzato, abbagliato, completamente assorto nello schermo. Digitava nervosamente sulla tastiera come se fosse un esperto programmatore di software aziendali.

Mi è sembrato di essere sul set di un cinepanettone con Christian De Sica, ma non mi è venuto da ridere.
Ero di fronte a un trio completamente dissociato, ma molto interessante dal punto di vista antropologico.

Ripensando alle parole dette da quel padre “di plastica” in merito alla carriera sportiva di suo figlio e alla inutilità della scuola elementare, sono stata colta da un senso di imbarazzo, misto a sdegno e a impotenza, che mi ha spinta a cercare conforto in voi.
Siamo di fronte a dinamiche educative e familiari decisamente inquietanti. Mi domando e vi domando se un padre possa educare un bimbo passandogli messaggi di questo genere, Dire ad un bambino di quattro anni ” se diventi bravo a calcio non ti faccio fare le elementari” non è una battuta, non fa ridere, non ha fatto ridere e non ha certo sedotto nemmeno quella signora, se quello fosse mai stato l’intento.

È un attentato, un atto per niente innocuo, un messaggio forte, una caduta pericolosa che potrebbe lasciare il segno in quel bambino. Chissà quante altre frasi del genere gli sono state dette, quella rimarrà sicuramente impressa nella sua memoria e verrà riportata in qualche occasione. Sfido qualsiasi psicologo o esperto di educazione infantile a smentirmi.

Il tono, la faccia, la spocchia con la quale quel soggetto (faccio fatica a definirlo padre) ha sfoggiato il “trofeo figlio” che non avrà bisogno nemmeno di fare le scuole elementari, rappresenta un fenomeno in crescita esponenziale. Non è la prima volta che mi imbatto in tali esempi di degrado intellettuale e socio culturale, di appiattimento dei valori, di incapacità di fare il genitore, di essere un educatore responsabile.

Inoltre, sono ancora una volta colpita dal malcostume di coinvolgere i bambini nel rito dell’aperitivo serale, cosa che si sta diffondendo ovunque. Esistono eserciti di bambini condannati ai tavoli di patatine e altri cibi poco raccomandabili, all’utilizzo di tablet e cellulari per sopperire alla noia e per sopravvivere ai discorsi dei grandi impegnati con spritz e bollicine.
Nei loro gesti compulsivi sulle tastiere, negli occhi spiritati generati dai video giochi, in quei momenti di profonda solitudine, quei bambini sono vittime, strumenti, accessori. E in loro appare tutto il disagio e la pochezza dei loro presunti educatori. I bambini ascoltano discorsi più grandi di loro, si intromettono o si isolano perché non sanno più chi sono. Sono grandi o sono piccoli? E i genitori cosa si aspettano da loro? Meno aggiornati a livello tecnologico e sempre più allo sbaraglio tra difficoltà, pandemia, perdita di certezze, sono sempre più impegnati a sognare figli vincenti che possano sopperire alle loro mancanze, alle loro frustrazioni, ai loro fallimenti.
Ma come li sognano questi figli?

Quanta tristezza e quanta delusione. Ho sempre pensato che essere figli significhi sapere di poter contare sempre sulla forza, sull’integrità e sull’equilibrio di un genitore, chiunque esso sia, a qualsiasi categoria sociale appartenga.
Il sogno genitoriale di un figlio che possa diventare qualcosa o qualcuno in fretta e senza sforzo non può più stare in piedi. È un fallimento.

Caro signore del tavolo accanto, si vergogni e chieda scusa a suo figlio per averlo offeso. Suo figlio vuole andare alle elementari, glielo ha anche detto, e ci andrà perché è obbligato dalla legge, per fortuna.

Cari genitori, giovani e meno giovani, se non ce la fate a fare il vostro mestiere, se percepite di aver bisogno di aiuto, fatevi aiutare. E se non riuscite nemmeno a rendervene conto, fidatevi dello sguardo raggelante della vostra vicina di tavolo o di quello dell’amica che avete di fronte.
Io credo che se ne sia accorto e se potesse tornare indietro, forse, ci penserebbe due volte a proporre a suo figlio di non studiare e di diventare un fenomeno da baraccone.
I bambini assorbono tutto e il conto prima o poi arriva.

Buone Feste a tutti!

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