IL PRESEPE È UN WORK IN PROGRESS

Ad ogni santo Natale che il cielo manda sulla terra mi ritrovo a contemplare il presepe che realizzammo anni fa in famiglia sotto l’illuminata guida di due ispirati e visionari amici artisti, che approvarono e diedero corpo alla nostra timida proposta di riprodurre in sughero i principali monumenti di Avellino: la Torre dell’orologio, la Dogana, la fontana di Bellerofonte e la chiesetta di piazza del Popolo con tanto di cancello semovente. Per ovvi motivi di spazio, il presepe che oggi troneggia nel mio salotto si sviluppa in altezza e la Dogana – rigorosamente difesa da alcuni centurioni romani – viene a trovarsi in cima ad una collinetta, senza per questo perdere il suo storico appeal. La parte retrostante (l’opera è a tutto tondo) rappresenta il mondo contadino delle periferie irpine, da cui contadinelle, pastori, zampognari e mercanti hanno tutto l’agio di portare i loro doni fino in pianura, in direzione della grotta. Occhieggia biblicamente dalle fenditure di quella roccia di sughero la bianca colomba della Pace, modellata da me con molta maggior convinzione che perizia tecnica. Quasi a fare da tramite tra le contrade e la città c’è Benino, il pastore dormiente che segna anche fisicamente la cesura tra i due pezzi componibili della struttura. E’ come se il suo sonno costituisse il passaggio obbligato tra l’umano e il divino, un po’ come la sonnolenza che colse Adamo quando Dio gli tolse la costola per formargli una compagna simile a lui. E soltanto a chi deve aver letto distrattamente la Bibbia in tutti questi secoli può essere sfuggito il particolare della dichiarata parità tra i sessi al momento della creazione del genere umano. Ma questo è un altro discorso.
Decidere di costruire un presepe, ben sapendo che ci sarà sempre qualcosa da aggiungere o da sistemare ogni anno, è un puro atto d’amore. Non è solo un atteggiamento emotivo, è una scelta temeraria: è un orientamento esistenziale di fondo che attraversa la vita come un’utopia. L’amore infatti è tutt’altro che una scelta fredda, logica, puramente razionale, ma arde nella sofferenza, nel sentimento, nella condizione reale in cui ci si ritrova incarnati. L’amore è per ognuno innanzitutto una scelta radicalmente indirizzata all’impegno. E scegliere significa inevitabilmente anche fare delle rinunce, perché non si possono servire nello stesso tempo l’Amore e il Potere. L’alternativa è radicale e impone scelte definitive.Chi crede di poterlo fare è oggettivamente un mistificatore: ha scelto in realtà solo il secondo elemento, mentre fantastica di avere scelto anche il primo. Né sono possibili soluzioni falsamente neutrali o ubiquitarie: Chi non è con me è contro di me, dice il Bambinello dalla mangiatoia, stroncando alla radice ogni illusione.

C’è un secondo punto, troppo spesso passato sotto silenzio: l’amore è impegno verso il proprio simile, non commiserazione verso un essere inferiore. Anche la semantica linguistica testimonia il pervertimento cui la storia ha costretto l’amore: il termine carità è passato a significare elemosina, cioè un atto di sommaria pietà verso chi per un momento riesce a far violenza alla nostra abituale indifferenza. L’amore – l’unico amore possibile che non sia mostruosa ipocrisia santificata – implica necessariamente un atteggiamento di uguaglianza reale, non concessa per un momento a determinate condizioni e revocabile a piacimento appena se ne ravvisi la pericolosità per il mantenimento dei propri privilegi. Chi ama crede nell’uguaglianza reale e si batte per essa, perché l’amore non solo rappresenti un incontro con l’altro, ma una scelta vincolante per sé. Se l’amore non è impegno verso il proprio simile è elemosina, ipocrisia, autentico odio che si concede una vacanza o una licenza d’amore. Tertium non datur.

A sua volta, un amore che non implichi un atteggiamento reale di uguaglianza, mantenendo nell’altro una condizione d’inferiorità per il gusto di recitare la farsa della bontà a buon mercato, è – secondo Paulo Freire – falsa generosità. L’uomo invaghito di ricchezza e potere (lupo travestito da agnello che non troverebbe cittadinanza nel presepe) si esibisce sulla scena del mondo per mietere una riconoscenza immeritata. Dunque anche l’amore è un work in progress, visto che richiede uno sforzo di costante impegno e autocontrollo.

Ma torniamo al presepe, e precisamente ad un allestimento alquanto anomalo che qualcuno di noi forse ricorderà, realizzato nei favolosi anni sessanta nella chiesa di S. Ciro su consiglio di Pio Falcolini, dotto frate francescano di profonda spiritualità. Con il consenso – che sapeva di complicità – del giovane parroco don Michele Grella, il presepe apparve all’improvviso in un angolo della chiesa sotto forma di uno specchio ritagliato sul profilo della Sacra Famiglia, raccolta nella classica posizione in cui è di regola rappresentata. Compito del fedele era quello di passare davanti allo specchio e confrontarsi silenziosamente col messaggio che scaturiva da quell’impatto. Semplice e geniale quanto indimenticabile.

Ogni anno, nel sistemare il presepe in salotto, la verifica del corretto funzionamento della fontanella posta al centro della piazza del mercato ha in genere su di me lo stesso effetto ansiogeno del miracolo di S. Gennaro per i napoletani. Infatti, delicate quanto improvvisate tubature in plastica rischiano ogni anno di otturarsi a causa degli inevitabili residui di calcare. Fino a quando non si sente il rumorino dell’acqua che scorre liberamente dal minuscolo tubo di ferro non sono affatto tranquilla: cerco di indagare, scrollando il malcapitato tubicino, sulle condizioni strutturali del pozzo. Poi, finalmente, l’immancabile bolla d’aria scompare, vinta dalla pressione esercitata dal motorino e l’acqua comincia a defluire con regolarità. A quel punto tutto il mercato sembra animarsi: pare di udire anche i sonori richiami del pescivendolo o delle comari con le ceste colme di verdura, intenti a riempire i panieri calati dai balconi dalle signore indaffarate a preparare il cenone. Per tutti questi motivi, sono profondamente convinta che mancherebbe qualcosa all’incanto della notte santa, se fosse priva del fruscio familiare dell’umile e casta sorella acqua.

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