FRUTTI DI MARE: MOLTO PRIMA DI NOI I SAPIENS DEL PALEOLITICO NE CONSUMAVANO A IOSA
Se qualcuno volesse un esempio spicciolo di inflazione lampo – legato essenzialmente alla domanda e all’offerta – basterebbe ricordare cosa succede in prossimità delle feste natalizie, dove in pescheria i prezzi schizzano, per poco più di una settimana alle stelle, per poi ridiventare “cristiani” una volta passato Capodanno.
E sì, perché nessuno rinuncia – e ci mancherebbe – nonostante la crisi, a un cenone della Vigilia con uno spaghetto, uno spaghettone o una linguina (fate voi) con vongole, fasolari e cozze; seguito, subito dopo, da una dorata frittura mista e un capitone arrosto.
Se può incuriosire sappiate che – a dire il vero più per necessità che per piacere – di questa preferenza culinaria abbiamo illustri predecessori che si perdono nella notte dei tempi.
“Mangiamo frutti di mare più o meno da quando beviamo il latte materno. Cotti o crudi fanno parte della nostra alimentazione dal Paleolitico Medio, e forse da più tempo ancora. Oltre ai sapiens africani anche i nostri fratelli neandertaliani se ne cibavano, e quindi è probabile che lo facesse anche il nostro antenato comune, più di mezzo milione di anni fa. C’è da supporre che gli ominini mangiassero frutti di mare da un milione di anni, o da più tempo ancora. È una stima prudente: sappiamo che molte specie di scimmie mangiano pesce, molluschi e crostacei quando ne hanno l’occasione”.
Così attingo dal libro: A Cena con Darwin – Cibo Bevande ed Evoluzione di Jonathan Silvertown – ed. Bollati Boringhieri.
Non dimentichiamoci che stiamo parlando degli albori dell’umanità, dove l’operato finalizzato al sostentamento alimentare classificava gli umani come cacciatori-raccoglitori.
La raccolta lungo le coste
Curtis Marean antropologo della Arizona State Univerity, nel 2001, scopre una grotta a Pinnacle Point in Sudafrica, provincia di Città del Capo che si rivela un sito paleontologico risalente a 165000 anni fa. Gli occupanti del periodo hanno lasciato un tale cumulo di conchiglie che fa capire come si cibassero. Principalmente, di frutti di mare: cozze, patelle, granchi e una grossa lumaca di mare, la Alikreukel di colore pervinca e anche bella grossa. Secondo l’autore del libro “ne basterebbe una mezza dozzina per fare una cena come Dio comanda”.
Insieme alle conchiglie si sono rinvenuti anche utensili per facilitarne l’apertura – una sorta di apriostriche – fatto di silcrete (sabbia e ghiaia cementata con silice disciolta) con la scheggiatura tagliente, tipica del periodo.
Il pesce e i frutti di mare sono ricchi di acidi grassi omega-3, fondamentali per lo sviluppo cerebrale: non è escluso, quindi, da un punto di vista nutritivo, che questa fonte di cibo abbia avuto un ruolo essenziale nella nostra evoluzione. Le sostanze nutritive essenziali sono quei composti di importanza vitale, come gli amminoacidi, che le nostre cellule non sono in grado di fabbricare da sole e devono essere acquisiti attraverso il cibo.
Un drastico raffreddamento, dovuto ad una delle glaciazioni, rese il clima inospitale in gran parte del continente africano. Troppo inospitale per la sopravvivenza dell’uomo.
Curtis Marean ne ha dedotto che gran parte della popolazione dell’entroterra deve aver trovato rifugio nella regione del Capo che gode di un clima mite grazie all’interazione delle acque dei due oceani che la bagnano.
Oggi il livello del mare è molto più alto e buona parte delle coste dell’epoca è stata sommersa. Le grotte di Pinnacle Point si sono salvate perché la grotta si trova nell’entroterra, in cima ad una rupe.
Sulle coste più a nord dell’Eritrea – nei fondali poco profondi del Mar Rosso – scavi lungo la barriera corallina hanno portato alla luce reperti che la datazione fa risalire a 125000 anni fa, formati dai resti di 31 specie diverse di molluschi commestibili, tra cui ostriche ed enormi quantità di mitili e ancora: utensili adoperati per estrarre la polpa squisita di due specie di granchi autoctoni.
I neandertaliani cucinavano meglio
Più o meno contemporaneamente ai picnic sudafricani, i neandertaliani (Homo neanderthalensis) che a quanto pare si erano adattati, meglio dei sapiens, ai climi freddi centroeuropei, avevano attraversato l’Europa e si erano stabiliti sulla costa meridionale della Spagna. Molti gusci di cozze ritrovati nelle grotte neandertaliane della zona presentano bruciature sulla superficie esterna, il che fa pensare a una loro cottura diretta sul fuoco.
Dobbiamo ammettere, a questo punto, che la loro arte culinaria fosse migliore di quella dei sapiens africani ancor prima che questi ultimi cominciassero a migrare in direzione di tutti gli altri continenti, compreso il nostro dove si insediarono e sostituirono, una volta estinti, i neanderthalensis.
Questa migrazione avvenne all’incirca tra i 70000 e i 72000 anni fa, iniziando dal Corno d’Africa e attraversando la penisola arabica sempre seguendo la linea della costa.
Si pensa che proseguirono fino all’India da cui poi fare il salto – attraversando il Pacifico – per raggiungere il continente australiano. Più o meno 45000 anni fa. Anche questo è stato possibile determinarlo grazie ai tipici mucchi di gusci di frutti di mare lasciati nei loro insediamenti stanziali.
Dai dati genetici, oggi sappiamo, che nel corso del cammino lungo le coste, gruppi di individui si separarono dagli altri, a intervalli regolari, per avventurarsi nell’entroterra. I discendenti di uno di questi gruppi – i nostri progenitori – misero piede per la prima volta in Europa tra i 45000 e i 50000 anni fa.
A questo punto ritengo necessario chiarire un punto, perché fatalmente quando si sintetizzano le pagine di un intero capitolo in poche righe è facile essere incompleti o ancor peggio elusivi.
L’intera attuale popolazione umana – quasi otto miliardi di persone – discende dal gruppetto di individui che un bel giorno decisero di lasciare l’Africa. Rispetto alle popolazioni africane di oggi, la nostra incredibile diversità, condivide un campione ridotto della ricchezza genetica africana originaria. Questo fa supporre che ogni tappa della migrazione vide piccoli gruppi di individui separarsi, viaggiare, accamparsi e creare nuovi insediamenti modificando alcune caratteristiche genetiche per adattamento ambientale. Da qui poi, nel corso dei millenni, a loro volta si staccarono altri gruppetti ogni volta che il numero di persone superava una certa soglia.
Continuiamo con le migrazioni
La migrazione lungo le rive asiatiche dell’Anello del Pacifico proseguì verso nord e cica 16000 anni fa raggiunse la Siberia. I ghiacci che coprivano il territorio consentirono il passaggio verso l’America nord-occidentale. Tutti i nativi americani dall’Alaska al Cile giunsero dall’Asia attraverso questo passaggio. Il ritrovamento in Florida di ossa di mastodonti macellati, risalenti a 14550 anni fa, ci fa dire che a questa data la regione era già abitata.
Altri seguirono la costa del Pacifico, raggiungendo il Cile più di 14600 anni fa.
Con i suoi 6400 chilometri di coste, lo stato sudamericano, ancora oggi, è la patria gastronomica dei frutti di mare: vi si possono trovare abaloni grandi quasi come un trancio di arrosto.
La migrazione verso sud si concluse nella Terra del Fuoco, probabilmente c.a 10000 anni fa.
Le tracce dei primi fuegini (abitanti del luogo) purtroppo sono state cancellate da una eruzione vulcanica avvenuta 7800 a.f.
La testimonianza di Darwin
Una vivida testimonianza diretta, però, ce la offre Charles Darwin nel corso del suo viaggio intorno al mondo con il suo brigantino Beagle. Il giorno di Natale del 1832 era in Patagonia e scrive nel suo diario:
“Siccome gli abitanti vivono principalmente di molluschi, sono obbligati costantemente a cambiare dimora; ma ritornano a intervalli regolari presso gli stessi luoghi, come dimostrano i cumuli di antichi gusci, che devono avere il peso di molte tonnellate”.
Scrive, poi, di provare compassione per i fuegini: “vestiti di brandelli di pelle di foca o interamente nudi, sono esposti al vento e alla pioggia e abituati a dormire sul suolo umido con temperature quasi glaciali. Quando l’acqua è bassa, d’inverno e d’estate, di notte o di giorno, essi si devono alzare per staccare le conchiglie dalle rocce”.
N.d.r. Sono andato alla ricerca, ma invano, di un filmato del programma Passaggio a Nord Ovest di Alberto Angela, di qualche anno fa, che presentava la vita di alcuni di questi raccoglitori di molluschi che – ancora oggi – affrontano scoscese falesie alte, anche centinaia di metri, per scendere sulla costa sottostante, approvvigionarsene e tornare, risalendo, da dove sono partiti. Questo, tutti i giorni, esclusivamente per il loro misero sostentamento alimentare.
Che dire ancora, alla fine di questo viaggio nella storia ultra millenaria delle nostre migrazioni intorno al mondo. Mi viene da fare un’unica considerazione. Quando ci siederemo a cena – la sera della Vigilia di “quel Santo Giorno” come dice Cuncetta in Natale in Casa Cupiello – se ci viene da fare un pensierino alla storia dell’evoluzione del genere umano legata anche al semplice ma gustoso frutto di mare che porteremo alla bocca con una forchettata di spaghetti, allora ricordiamoci di come sono state una risorsa fondamentale per superare momenti di carestia alimentare in un periodo in cui l’agricoltura e la coltivazione del bestiame erano ancora attività di sostentamento molto più in là da venire.
Vertigine della lista
In chiusura, il solito riferimento letterario, stavolta “verace” – proprio come i migliori molluschi di cui abbiamo parlato -. Ce lo offre la colorita penna di Domenico Rea, nocerino di nascita ma partenopeo d.o.c. per prolungata adozione. È un brano di Crescendo Napoletano che descrive in maniera mirabile e dettagliatissima il mercato del pesce, in una Napoli di mezzo secolo fa:
“…Meglio, molto meglio, recarsi alle prime luci del giorno al mercato del pesce a via Santa Brigida, un segmento laterale di via Toledo, angolo di palazzo Reale. L’aspetto della piccola strada era quello di una nave nera spinta dal mare sulla terra e lasciata lì inclinata.
I pescivendoli scalzi, con i calzoni arrotolati, i copricapi da corsari, alcuni lunghi fino alle spalle col fiocco, rosso, verde, giallo, nero, le camicie aperte e come squarciate da una coltellata, le maniche arrotolate sulle braccia, sembravano turchi sbarcati alla marina. Tutta la strada a banchi appena separati era piena di ogni sorta di pesci con a terra vasche di legno e bagnarole ricolme di vongole, telline, turatuffoli, fasulari orgogliosi di vibrare il loro cazzetto rosso fuoco e
pisce palumme e pescartice
scuòrfane, cernie ed alice
mucchie, ricciòle, musdee e mazzunne,
stelle, aluzze e storiune,
merluzze, ruòngole e murene,
capofoglie, orche e vallene,
cièfere, cuocce, tràccene e tenghe,
treglie, trèmmole, trotte e tunne,
pisce spate e stelle de mare,
voccadoro e cecenielle,
cannolicchie, òstreche e ancine,
capitune, anguille, polipi…
…chi comprava pesci di pregio, chi si accontentava di un paio di chili di cefalotti dalle branchie insanguinate e chi era soddisfatto soltanto di portarsi a casa un cartoccio di alici e sarde o due o tre “scelle” di baccalà. Il baccalà era sacro. Si poteva mangiare la sera della Santa Vigilia capitoni e anguille, ma il re della festa plebea rimaneva il baccalà, in casseruola con capperi, pinoli e pomodori o buttato in una mezzabotte di olio bollente e fritto…”.
I commenti sono chiusi.