UN CANTO CHE CONSOLA. “AMOR CHE NELLA MENTE MI RAGIONA”

Il Purgatorio (Canto 2°, 1 ss.), quale regno dell’attesa, si apre con l’aurora (“Già era il sol a l’orizzonte giunto”); ma essa, là dove sono Dante e Virgilio, già mutava colore dal bianco, al vermiglio, all’arancione (“le bianche e le vermiglie guance,/là dov’i ‘era, della bella Aurora,/per troppa etate divenivan rance”).

Ed ecco sopraggiungere una piccola barca (“un vascello snelletto e leggero”), guidata dall’Angelo (“l’uccel divino”) che porta le anime destinate Al Purgatorio.

L’immagine richiama alla mente quella, ben diversa, della barca di Caronte, che traghettava all’Inferno la “perduta gente”.

Più di cento spiriti, destinati invece al sito della speranza, occupano quest’altra imbarcazione, cantando in coro un salmo (“ In exitu Israel de Aegipto”), e, dopo il gesto della croce fatto loro dall’Angelo, “si gittan tutti in su la spiaggia”, chiedendo ai due poeti la strada per salire alla montagna. Ma Virgilio fa presente che anch’essi sono dei pellegrini (“ noi siam peregrin come voi siete”), giunti poco prima per altra via (“che fu sì aspra e forte/, che lo salir ormai ne parrà gioco”).

Le anime, appena si accorgono che Dante è un vivo, si addensano intorno a lui, divenendo pallide per l’emozione (“maravigliando diventaro smorte”), come ritornate improvvisamente tra le cose terrene, quasi dimentiche di dover sostenere le pene purificatrici che le renderanno degne di salire tra i beati (“così al viso mio s’affissar quelle/anime fortunate tutte quante,/quasi obliando d’ire a farsi belle”.)

Da quella folla di anime ansiose se ne fa avanti una che, avendo riconosciuto Dante, accenna ad abbracciarlo tanto affettuosamente da indurlo a ricambiare il gesto (“Io vidi una di lor trarresi avante/per abbracciarmi, con sì grande affetto,/che mosse me a far lo somigliante”); che però riesce vano, trattandosi d un’ombra (“Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,/ e tante mi tornai con esse al petto”).

Tuttavia Dante, dal “soave” parlare, riconosce in quello spirito il suo amico Casella (“Casella mio”), musico e cantatore fiorentino, col quale, in vita, aveva condiviso la passione per la musica, e le cui composizioni erano già state capaci di annullare ogni sua tristezza (“l’amoroso canto/che mi solea quietar tutte mie doglie”).

Egli, pertanto, lo invita a cantare ancora per consolare la sua anima tanto affannata dal viaggio attraverso l’Inferno. E Casella inizia intonando il primo verso della canzone “Amor che ne la mente mi ragiona” (composta nel 1294 e commentata da Dante nel terzo trattato del Convivio, forse musicata proprio da Casella), riportando così l’amico poeta ai suoi ricordi.

In essa primeggia la lode di una donna (personificazione allegorica della Filosofia) e delle sue altissime qualità, non tutte però descrivibili, sia per l’insufficienza della ragione umana a comprenderle, sia per l’inadeguatezza delle parole ad almeno esprimere quanto percepito dall’intelletto.

………”Perciò, se i versi avranno qualche carenza nel lodare quella donna, di ciò si incolpi il debole intelletto e il nostro parlare, che non ha la capacità di rivelare tutto ciò che Amore dice (“Però, se le mie rime avran difetto/ch’entreran ne la loda di costei,/di ciò si biasmi il debole intelletto/e ‘l parlare nostro, che non ha valore/ di ritrar tutto ciò che dice Amore”)

………Ogni angelo la ammira dal Cielo, e anche coloro che sulla terra se ne innamorarono la incontrano nei loro pensieri quando Amore fa sentire un poco del suo appagamento (“Ogni intelletto di la su la mira,/ e quella gente che qui si innammora/ ne ‘lor pensieri la trovano ancora/quando Amor fa sentir de la sua pace”).

……… Il modo di essere della donna piace tanto a Colui che glielo dà, che Egli infonde continuamente in lei la propria perfezione, al di là della richiesta dell’umana natura (“Suo esser tanto a Quei che lel dà pace,/che ‘nfonde sempre in lei la sua virtute,/oltre il dimando di nostra natura”).

……… Nelle sue bellezze si vedono cose che gli occhi di coloro ai quali ella risplende ne mandano al cuore messaggi pieni di desideri, che si riempiono d’aria e diventano sospiri (“ché ‘n sue bellezze son cose vedute/ che li occhi di coloro dov’ella luce/ ne mandan messi al cor pien di desiri,/ che prendon aire e diventan sospiri”).

……… In lei discende il valore di Dio così come fa negli angeli che lo vedono, e qualunque donna nobile non crede questi, vada con lei e osservi i suoi atti (“In lei discende la virtù divina/sì come face in angelo che ‘l vede;/ e qual donna gentile questo non crede,/vada con lei e miri li atti sui”).

………Gli atti dolcissimi che ella mostra a ognuno vanno ciascuno suscitando a gara Amore con quei mezzi che lo fanno svegliare (“Li atti soavi ch’ella mostra altrui/vanno chiamando Amor ciascuno a prova/ in quella voce che lo fa sentire”).

………Di costei si può dire : nelle donne è nobile ciò che si trova in lei, ed è bello tutto ciò che somiglia a lei (“Di costei si può dire:/gentile è in donna ciò che in lei si trova,/ e bello è tanto quanto lei simiglia”).

………Perciò qualunque donna sente accusare la propria bellezza per il fatto che non si mostra serena e umile, osservi costei che è modello di umiltà! Costei è quella che umilia ogni vizioso; Chi mise in moto l’universo pensò costei (“Però qual donna sente sua bieltate/ biasmar per non parer queta e umile,/ miri costei ch’è esemplo d’umiltate!/Questa è colei ch’umilia ogni perverso:/costei pensò Chi mosse l’universo”)……….

Queste ed altre espressioni del “Convivio” adornano l’affettuoso canto di Casella; ed il loro efficace carattere stilnovistico trova anche eco nell’altra canzone della “Vita nova” di Dante, che inizia con “Donne ch’avete intelletto d’amore”.

Esse hanno precipuamente in comune “lo stilo de la loda” per una donna (‘i vo’ con voi de la mia donna dire”).

Qui il poeta intende parlare ad un uditorio “selezionato”, cioè “non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine” (cioè soltanto donne senza qualità specifiche) e quindi munite di “intelletto d’amore” in grado così di capire che cosa è amore. Ad esse egli esprime il proprio pensiero senza mediazioni né ostacoli (“la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa”). Analogamente dirà altrove (Purg. 24°, 52-54) “’I mi son un, che quando/Amor mi spira, noto, e a quel modo/ch’ e’ ditta dentro vo significando”.

Di questa composizione si è detto che essa “segna il superamento sia del tirocinio guittoniano e cortese sia del momento doloroso del Cavalcanti”.

Essa rappresenta il mito dell’Amore come pura, disinteressata e beatificante contemplazione di Beatrice creatura perfetta, e come suprema gioia che nasce dalla luce di lei.

Il canto fascinoso di Casella, che ha fatto ritrovare in Dante il sapore della giovinezza, ha però breve durata, perché interviene il rimprovero di Catone; della cui presenza gli ascoltatori (“Lo mio maestro, e io e quella gente” Purg 2°, 115) non si erano prima accorti, mentre indugiavano nel salire al monte (“Noi eravamo tutti fissi e attenti/ a le sue note; ed ecco il veglio onesto/gridando : (Id,2°, 118 ss.).

Essi, allora, in guisa di colombi che, “adunati alla pastura,/se cosa appare ond’elli abbian paura,/subitamente lascian star l’esca,/ perch’ assaliti son da maggior cura” (Id, 125 ss.), presto “lasciare lo canto” e ripresero il loro cammino lungo il pendio dell’altura.

I commenti sono chiusi.