DA UNA DI… VIN POESIA: “… MA PER LE VIE DEL BORGO DAL RIBOLLIR DE’ TINI
va l’aspro odor de i vini l’anima a rallegrar… ”. Le sensazioni e gli umori che trasmette la poesia San Martino di Carducci – quasi un’istantanea, agli albori della fotografia – oltre che descrivere, mirabilmente, l’autunno inoltrato – fanno risaltare, della stagione, tre caratteristiche: il tempo uggioso, le meditazioni di un cacciatore e i penetranti effluvi delle prime fasi di preparazione del vino.
Nota personale, chi scrive ricorda nostalgicamente di averli colti nell’aria, la prima volta, da ragazzo quando in questo periodo dell’anno percorreva Via Manfredi ad Atripalda, per andare a scuola.
Parlare del vino è storia complessa, mette insieme cultura, tradizione, costumi, vissuto personale e di relazione. Troppa roba da calare all’interno di articoli che vogliono essere brevemente di divulgazione scientifica e non so nemmeno se riescano sempre nell’intento. Mi limiterò, perciò, a un po’ di storia, a qualche elemento di scienze e a una sua disavventura terrena, che umanizzando la materia in esame – il vino fa parte della nostra vita quotidiana, così come lo è il pane – l’accomuna alle nostre battaglie recenti, ad esempio: la pandemia. Ma andiamo per ordine.
Come per la birra, il microbo, nel microbioma dei grappoli d’uva, che batte chiunque altro – Dekkera, Pichia, Kloecera – nel consumo di zucchero per produrre alcol, è il saccharomyces cerevisiae, ed è alla base della vinificazione.
In breve: la pruina, la patina che ricopre la buccia dell’acino maturo, contiene un insieme di microbi al pari di un esercito che cinge d’assedio una fortezza dotata di provviste importanti, il succo d’uva. I grappoli pressati, danno origine al mosto che contiene pertanto centinaia di funghi e batteri diversi. Una volta cominciato il banchetto tra i microbi e il caleidoscopio di carboidrati presenti nel liquido di pigiatura o torchiatura, comincia la trasformazione dello zucchero in etanolo.
Deciso di umanizzare il vino, spingiamoci oltre, assegnandogli anche un peccato originale. Nel senso che l’etanolo è a tutti gli effetti una tossina priva di equivalenti funzionali nel metabolismo umano.
Vino birra e liquori andrebbero, paradossalmente, confinati nell’armadietto dei veleni di una farmacia, se non vi fosse stato, anche per loro – senza voler essere blasfemi, tanto l’esempio è figurato – un redentore, rappresentato, nella lunga storia dell’evoluzione, dalle grandi scimmie e dal loro cocktail di frutta.
La frutta deve aver avuto un ruolo importante anche nella dieta dei nostri comuni antenati più di cinque milioni di anni fa. Dove c’è un frutto maturo ci sono lieviti e dove ci sono dei lieviti ci sarà dell’alcol. Il processo alla base della vinificazione non è altro che la versione domesticata della fermentazione naturale della frutta che marcisce. Secondo il biologo Robert Dudley, per l’uomo, aver sviluppato una tolleranza all’alcol, affonda le sue radici nella dieta a base di frutta dei nostri primi antenati.
La volta scorsa accennammo a come il S. cerevisiae sintetizzi l’etanolo grazie ad un enzima, l’alcol deidrogenasi (ADH). Questo associato al gene ADH1 produce etanolo, mantenendo la funzione nata con l’evoluzione dei primi frutti. L’enzima codificato ADH2, invece, converte l’etanolo in acetaldeide, che il lievito utilizza per il suo metabolismo.
Ebbene, dai dati forniti dalla genetica, la nostra tolleranza all’alcol è una versione umanizzata della naturale alcol deidrogenasi, l’ADH4. L’ADH4 metabolizza l’etanolo quando la sua concentrazione nel fegato è elevata. Ricostruendo l’evoluzione del gene che codifica per l’ADH4 si è scoperto che quest’amico prezioso di tutti i primati beoni, assunse la forma attuale tra i 13 e o 21 milioni di anni fa, più o meno all’epoca dell’ ultimo antenato comune dell’uomo e dell’orango.
L’aver acquisito, nella storia dell’evoluzione, la capacità di metabolizzare l’alcol non ci esenta, però, da alcune cautele.
Il fegato metabolizza l’alcol trasformandolo in acetaldeide. Questa è una sostanza comunque tossica per l’organismo in dosi eccessive. L’accumulo di acetaldeide dipende da tre fattori: la quantità di alcol che affluisce con il sangue, la velocità con cui gli enzimi ADH lo trasformano in acetaldeide e quella con cui è metabolizzata l’acetaldeide stessa. Quest’ultimo processo ha luogo nel fegato ad opera di tre enzimi, le acetaldeide idrogenasi ALDH. Se tutto funziona come si deve – perché si è bevuto con moderazione o perché gli enzimi lavorano velocemente – si impedirà il ritorno dell’acetaldeide nel sangue, evitando i postumi di una sbronza.
Per chiudere con la salute, attenzione ai maniaci delle diete liquide: a parità di quantità, l’etanolo fornisce un numero di calorie quasi doppio rispetto ai carboidrati.
Spero che dopo questa digressione un tantino pallosa non vi siate annoiati e stiate ancora con me.
Ora alleggeriamo con un po’ di “vinografia”.
Vista la lunga relazione evolutiva tra lieviti, frutta e primati possiamo affermare, come logica conclusione, che le prime bevande fermentate furono una conseguenza inevitabile dell’avvento dell’agricoltura.
Le specie di uva selvatica originarie della Cina sono numerose, mentre in Europa domina Vitis vinifera, l’antenata dell’uva domestica utilizzata da migliaia di anni per produrre vino. A dire il vero varietà selvatiche se ne trovano ancora oggi, dall’Africa Settentrionale alla valle del Reno. Nelle specie selvatiche i fiori maschio e femmina crescono su piante diverse e i grappoli si sviluppano solo su metà delle piante disponibili – i maschi sono necessari solo per l’impollinazione -; nelle specie domesticate i fiori sono ermafroditi, i grappoli crescono su tutte le piante, sono grandi e hanno un contenuto di zuccheri più elevato.
Le prime testimonianze archeologiche della produzione del vino in Europa provengono da una grotta nelle montagne del Caucaso, vicino al villaggio armeno di Areni: una vasca per pressare l’uva, risalente a 6000 anni fa e realizzata sfruttando la pendenza del terreno – lisciato applicando strati di argilla compatta – verso l’imboccatura di una giara incassata nel suolo.
Sul pavimento della grotta sono stai ritrovati i resti di altre grandi giare adatte alla fermentazione e alla conservazione del vino, insieme ai resti essiccati di acini, bucce e raspi. In una delle giare e nella vasca di raccolta sul pavimento sono stati identificati i residui chimici di uva rossa. Pur non avendo trovato etichette con la dicitura “Vino rosso, 4000 a.C.”, tutto fa pensare che Areni abbia ospitato la prima azienda agricola della storia.
Per uno dei più grandi agronomi della storia, il russo Nikolaj Vavilov non ci sono dubbi: la vite fu domesticata per la prima volta nel Caucaso.
Se può interessare qualcuno, l’azienda vitivinicola Zorah di Areni, produce – ancora oggi – il vino rosso Areni Noir “Karasi” con le stesse uve risalenti alla tradizione di 6000 anni fa, coltivate sulle pendici del monte Ararat tra i 1400 e i 1600 metri di altitudine, utilizzando le tradizionali anfore armene chiamate “karas”.
È reperibile facilmente sui motori di ricerca. Costo a bottiglia: 30 euro c.a.
La mistica del vino e lo sciovinismo del terroir – il rapporto tra il vitigno e le caratteristiche specifiche del luogo di produzione – sono così potenti da aver fatto rivendicare la domesticazione della vite alla Sardegna, alla Linguadoca e alla Spagna.
In realtà ogni vite, come ogni persona, è il prodotto dei geni trasmessi nel corso del tempo, geni adattatisi ai luoghi e agli eventi che hanno plasmato le caratteristiche individuali.
Le circa 7000-8000 varietà coltivate oggi di Vitis vinifera – di cui, orgoglio italiano, circa la metà sono quelle italiane – sono un esempio di diversità che ricorda quello della nostra stessa specie, anche se all’uomo manca lo stratagemma evolutivo di cui la vite ha imparato a servirsi molto bene : la propagazione clonale.
Fin dai tempi dell’antica Roma la propagazione della vite avviene innestando la varietà prescelta su supporti radicali (portainnesto) dalle caratteristiche ben definite.
Tutta l’uva di un dato cultivar – la varietà agraria di una specie botanica – deriva da un unico clone.
La creazione di nuove varietà avviene per selezione clonale, incrociando varietà esistenti e scegliendo, tra le nuove piante, quelle da propagare per innesto. La consuetudine di incrociare varietà già presenti sul territorio ha portato a una concentrazione geografica di famiglie di cloni imparentati.
Una classifica delle varietà policlonali della stesso vitigno, in Italia?
Accontentati: Sangiovese 113 – Nebbiolo 43 – Barbera 33 – Montepulciano 23 – Trebbiano toscano 22 – Vermentino 20 – Moscato bianco 19 e via andare.
Tornando alla storia e al percorso migratorio della Vitis vinifera in Europa – dopo la caduta dell’Impero romano – fu l’avvento del Cristianesimo a favorire la diffusione della vite nei vari paesi, oggi dell’Unione.
Il motivo: per poter disporre del vino dell’Eucarestia. Con ogni probabilità, il clone originale da cui ebbero origine le varietà spagnole giunsero dalla Francia con i pellegrini che attraversavano i Pirenei per recarsi a Santiago di Compostela.
Per chiudere con la clonazione, giusto un accenno alle cosiddette mutazioni gemmarie.
Talvolta si sviluppano germogli diversi dal resto della pianta: sono le cosiddette mutazioni gemmarie, una delle possibili modalità di evoluzione delle varietà di uva.
La mutazione gemmaria dal Pinot – un vitigno antico e “nobile” coltivato nella Champagne e in Borgogna – nella sola Francia ha sviluppato 64 cloni: riconosciuti e registrati.
In Italia, il Nebbiolo – vitigno autoctono del Piemonte – che dà origine a vini di pregio quali il Barolo, il Barbaresco e il Nebbiolo d’Alba possiede anch’esso un certo numero di mutazioni gemmarie con differenza tra i cloni significativa.
Le mutazioni gemmarie sono, geneticamente, causate da segmenti ribelli di DNA, denominati elementi trasponibili, che possono spostarsi all’interno del genoma e duplicarsi in gran numero di volte.
Gli elementi trasponibili determinano anche il colore degli acini – dovute a pigmenti: le antocianine -. Sempre nel Pinot le varietà delle bacche presentano quattro tipologie: bianche, nere (di due tipi) e grigie dovute a elementi trasponibili.
Anche la vite ha avuto la sua sciagurata epidemia che ha coinvolto la quasi totalità delle varietà presenti in Europa. Fece la sua comparsa in Francia nel 1860. Le foglie delle piante cadevano prima del tempo, i grappoli appassivano nelle vigne e le radici marcivano. Le piante morte non mostravano segni riconducibili a ciò che le aveva uccise. Il colpevole fu smascherato solo grazie a Emile Planchon, professore di botanica dell’università di Montpellier. Le radici pullulavano di insetti simili ad afidi che succhiavano la linfa delle piante. Planchon si mise a studiare il ciclo di vita dell’insetto per scoprire come combattere l’infestazione senza però venirne a capo.
Nel frattempo la notizia era arrivata negli Stati Uniti e giunse all’attenzione dell’entomologo ufficiale dello stato del Missouri, Charles Riley che si chiese se per caso non si trattasse dello stesso problema osservato sulle foglie delle viti importate dagli emigranti europei dello stato di New York. L’insetto americano infestava le foglie delle viti, quello europeo preferiva le radici. Giunto in Francia poté osservare il parassita di persona e scoprì che apparteneva alla medesima specie: Daktulosphaira vitifoliae o più semplicemente, fillossera.
Riley era un darwiniano della prima ora e inquadrò il problema da un punto di vista evolutivo. L’insetto, in origine, doveva provenire dall’America dove nel frattempo le viti si erano adattate per resistere al parassita. Per porre fine in Europa all’epidemia di fillossera bisognava importare gli apparati radicali di viti americane resistenti come Vitis riparia e innestarvi le varietà locali di Vitis vinifera.
L’uso di portainnesto resistente alla fillossera finì per salvare l’industria vinicola europea e le sue varietà secolari. Il contributo prezioso di Riley fu ricompensato dal governo francese con il riconoscimento della Legion d’Onore.
Ma come per il Covid che, oggi, si evolve e sviluppa le varianti, Ridley capì col suo intuito evoluzionista che il vitigno American Concorde che si stava coltivando negli S.U. come ibrido tra specie americana e l’europea Vitis vinifera, col tempo, poteva consentire al parassita di evolversi ed essere in grado di attaccare il cultivar americano. Un secolo più tardi la previsione si è avverata. Oggi negli Stati Uniti esiste una fillossera che si è adattata in maniera specifica per vivere sul vitigno Concorde.
Oggi ci si domanda se la continua propagazione della vite per via vegetativa, escludendo la riproduzione sessuale, non finisca per indebolire le risorse della pianta, contribuendo a condizionarne la resilienza a batteri e virus. In pratica la marza (o nesto) e il portainnesto oltre al proprio patrimonio genetico possiedono al loro interno tutto un corredo di microrganismi accumulatosi negli anni e trasmessi sistematicamente alla discendenza. È una domanda che sorge spontanea se si guarda alla comparsa di forme epidemiche come la Flavescenza dorata e la virosi del Pinto grigio.
Ritornare alla riproduzione sessuale potrebbe essere una strategia vincente, anche se complicata e energeticamente costosa, affinché la natura possa garantire agli organismi superiori quella resilienza richiesta da uno scenario mondiale mutevole, dove i parassiti si adattano continuamente variando il loro genoma mentre il vitigno rimane uguale a se stesso, correndo il rischio di soccombere.
Curiosità di letterati…sempre per il mio amico.
Stando alla biografia che ne fa di lui Boccaccio, il sommo Dante non era dedito particolarmente né ai piaceri della tavola né tantomeno al vino, anche se la coltivazione di vigne e la produzione di vino interessò eccome gli Alighieri, tanto che ancora oggi una loro tenuta è proprietà della famiglia: Serego Alighieri.
A Recanati famosissima, e a perdita d’occhio, è la tenuta dell’Azienda Vinicola della famiglia Conti Leopardi.
Per Giovanni Verga, il vino aveva un ruolo esclusivo al pari del pane, così come i gesti eucaristici per i protagonisti della Cavalleria Rusticana.
Manzoni oltre che al caffè era particolarmente interessato al nettare di Bacco, tanto da farsi realizzare un bicchiere per il vino più grande degli altri. Così, se gli chiedevano: “Beve molto?” Rispondeva: “No, solo due bicchieri ”.
Nelle Odi di Orazio abbiamo numerose liriche ai vini: al Falerno, al Massico, al vinello di Sabina, al Cecubo, al Mareotico e al Caleno.
Virgilio, nelle Georgiche, era affascinato dall’arte di produrre vino.
Oggi il termine scientifico per caratterizzare e descrivere un vigneto e Ampelografia.
Dalla mitologia greca Ampelo era il giovane satiro amato da Dionisio, dio del vino. Poi i latini resero “oriundo” Dionisio trasfigurandolo in Bacco. E chi non ricorda la poesia di Lorenzo de’ Medici, il Trionfo di Bacco e Arianna.
Mai tanti appellativi per indicare, nel passato, il dio del vino: Bròmio, Lièo, Lenèo, Lùsio, Tionèo
Come si noterà tutta una illustre e felice compagnia.
Tanto che alla fine viene naturale suggellare il tutto col verso della Genesi:
“Bevi il tuo vino col cuore lieto”
A Voi Tutti: Prosit !!!
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