L’ORDINAMENTO GIURIDICO E LA REALTÀ SOCIALE

L’ordinamento giuridico, quale insieme di principi e regole che disciplinano la coesistenza sociale, costituisce l’aspetto normativo del sistema sociale, del quale è quindi una componente: la realtà normativa.

Di conseguenza, i mutamenti degli altri aspetti (religioso, politico, morale, economico, di costume, demografico, ecc.) del sistema sociale influiscono sulla stessa realtà normativa dell’ordinamento, così come le modifiche di quest’ultimo incidono, reciprocamente, sulla realtà sociale.

Il diritto, quindi, non può essere considerato come qualcosa di autonomo, avulso e distaccato dalla realtà concreta, ad essa preesistente e da essa immodificabile, poiché invece è, entro certi limiti, permeabile dalle ideologie e dagli orientamenti sociali, che mutano con il mutare delle esigenze della vita.

Tecnicamente, difronte alla realtà sociale, l’ordinamento, nel momento in cui viene posta una nuova norma, svolge una funzione di conservazione, quando si adegua ad una situazione o regola sociale già esistente, rendendola giuridica; oppure una funzione di trasformazione, se invece assume un atteggiamento difforme dalla situazione di fatto preesistente, costringendo il destinatario della norma ad adeguarsi non più alla realtà spontaneamente formatasi ma a quella creata dal Legislatore.

In ambedue i casi, però, il fenomeno è preceduto da una valutazione sulla opportunità o necessità di conservare o di trasformare la realtà di fatto preesistente.

Né può dirsi, almeno dal punto di vista del Legislatore (salvo il diverso e più ampio giudizio storico-politico “a posteriore”), che il fenomeno stesso, almeno sul piano giuridico, comporti a volte un’involuzione e non invece sempre un’evoluzione.

Rispetto all’ordinamento, la posizione del giurista-interprete si pone non senza una certa autonomia di valutazione, poiché egli esaminerà la realtà sociale alla stregua delle regole dell’ordinamento e dei suoi princìpi generali, ma darà ad essi anche il senso che, nella loro storicità, deriva dalla situazione sociale nei suoi vari aspetti concreti, poiché egli non è vincolato dalla mera letteralità della norma, ma da quello che essa significa nella globalità dell’ordinamento giuridico immerso in quel determinato momento storico.

Nelle varie epoche, invero, differenti risultano essere state le esigenze e le correlative ideologie che hanno influenzato e condizionato le scelte del legislatore, sì che, nel tempo, ogni ordinamento risulta rispecchiare una determinata concezione della vita.

I valori tutelati dall’ordinamento nel suo divenire

L’ordinamento giuridico è comunque unitario e ciò significa anche sistematicità dello stesso, nel senso che l’insieme dei valori, variamente tutelati, che si rinvengono in un determinato ordinamento, individuano la visione del mondo che lo sostiene e caratterizza, cioè la filosofia della vita scelta dal Legislatore come filosofia dei rapporti sociali.

Pertanto l’ordinamento risente dei mutamenti e dei contrasti di ispirazione a questo o a quel valore della società, specialmente nei momenti di brusco passaggio da una filosofia della vita ad un’altra, mentre si presenta più stabile allorché una determinata concezione della vita rimane predominante.

Specialmente nell’attuale momento storico, la società è tutt’altro che statica, essendo invece in una fase di transizione e di mutamento dei valori cui ispirarsi, che incidono sulla stabilità degli orientamenti dei vari ordinamenti giuridici; i quali si presentano anch’essi, parallelamente, in rapida e continua trasformazione ed evoluzione.

A causa di ciò, è possibile rinvenire norme coesistenti nel sistema e tuttavia ispirate a valori e concezioni del tutto opposti.

Le leggi ed i codici del nostro ordinamento, ad esempio, esprimono un’ideologia ed una visione del mondo, costituenti la filosofia della vita considerata dal Legislatore dell’epoca, che sono diversi dall’ispirazione ricavabile dalla Costituzione repubblicana, successiva nel tempo e tuttavia coesistente nella vigenza con le leggi ed i codici predetti.

Di conseguenza, il giurista può trovarsi di fronte al dilemma di applicare o non una norma che non è più rispondente al complesso di valori nuovi, verso i quali la società moderna è orientata e che sono stati recepiti dal testo costituzionale.

I valori fondamentali che caratterizzano un determinato ordinamento possono, comunque, sintetizzarsi nelle due massime categorie dell’“avere” e dell’“essere”.

La prima riguarda l’aspetto patrimoniale e produttivo della società; e quindi dà rilievo alla proprietà, all’iniziativa economica privata, all’impresa ed al lavoro quale mezzo di produzione.

La seconda è relativa al profilo esistenziale della persona umana; e quindi dà prevalenza ai suoi diritti fondamentali e personali, quali il diritto alla libertà di pensiero e di espressione, all’eguaglianza, alla dignità, al lavoro, ecc., a lui spettanti sia quale individuo sia quale componente delle comunità familiare o sociali in cui esprime la sua personalità.

La storia degli ordinamenti presenta, appunto, l’alterna vicenda del prevalere dell’una categoria sull’altra o del contrasto e del vario compromesso tra le stesse; e di tale fenomeno occorre conoscere i principali aspetti e momenti nell’evoluzione del nostro ordinamento giuridico.

L’ordinamento italiano sotto il codice civile del 1865

Nella mentalità e disciplina del codice civile del 1865, sorto per realizzare un’uniformità politica con l’abolizione dei codici pre-unitari, la categoria dell’avere prevale su quella dell’essere, in quanto al centro del sistema è posta la proprietà privata individuale (specialmente quella immobiliare terriera); la quale è strumento di prevalenza sociale, poiché prerogative e diritti anche personali (es. diritto di voto, privilegi, ecc.) vengono spesso attribuiti al soggetto se ed in quanto proprietario; ed alla quale sono subordinati, in funzione alquanto strumentale, anche altri istituti dell’ordinamento, quali la famiglia, le successioni “mortis causa” ed i contratti, rispettivamente considerati come mezzi di conservazione e di trasmissione, oltre che di potenziamento della proprietà privata.

Il predetto codice del 1865 è un codice individualista, nel senso che tutela l’individuo in quanto tale, specialmente con riferimento a ciò che ha, e che diffida delle comunità intermedie (tra l’individuo e lo Stato), quali i partiti politici, i sindacati, le associazioni, le società; e, pur ammettendo l’espropriazione della proprietà privata, parla inizialmente non di necessità, utilità o interesse generale, ma di dovere del proprietario di “cedere” il bene allo Stato, ponendo così l’accento sula volontà del privato anche in questo ultimo atto.

L’ordine dello Stato italiano ottocentesco, espresso sostanzialmente dal codice in argomento, era quindi ispirato alla tutela dei diritti quesiti, delle situazioni precostituite, che mirava a mantenere senza intervenire su di esse i n senso modificativo.

Trattavasi, quindi, di uno Stato di polizia (cosiddetto “Stato guardiano notturno”), il quale, più che intervenire nelle situazioni preesistenti per creare un nuovo ordine economico, sociale ed etico, si preoccupava di conservare l’ordine esistente e principalmente la proprietà.

Peraltro, da tale Stato di polizia si passò poi ad una forma di Stato assistenziale, ispirato a finalità più caritatevoli e pietistiche che di tutela della dignità e libertà personale.

Quanto ai rapporti personali e familiari dell’individuo, l’ordinamento del codice del 1865, profondamente influenzato dal codice napoleonico, introdusse il matrimonio civile e mantenne la separazione tra coniugi, ma attribuì carattere autoritario all’istituto familiare, conferendo al marito la posizione privilegiata di capo della famiglia, con poteri vari sui figli, ed alla moglie una posizione vicaria e subordinata (circa la condizione, il cognome, la residenza, l’obbligo di contribuzione al mantenimento, l’autorizzazione per gli acquisti e per gli atti di disposizione).

Successivamente la donna ottenne qualche miglioramento (capacità a testimoniare, attenuazione della potestà maritale per la separata o lavoratrice, consigli di famiglia, professioni, impieghi pubblici).

L’avvento del fascismo nel 1922

Tuttavia un ruolo subordinato e vicario la donna conservò con l’avvento del fascismo, i cui princìpi favorivano un modello di famiglia quale istituzione sottomessa allo Stato e da esso gerarchicamente dipendente, come ente che trascende i singoli membri ed i loro interessi individuali.

Si intendeva, infatti, con l’instaurazione del predetto regime, abbattere il modello liberal-borghese della famiglia, per sostituirlo con quello ispirato alla solidarietà corporativa, e tutelare la famiglia in funzione degli interessi statuali, come luogo di produzione (di qui la tutela legislativa della lavoratrice madre) nonché come cellula della società (quindi tassa sul celibato e provvidenze alle famiglie numerose) e come formazione sociale (per l’educazione primaria dei minori, potenziata da organizzazioni parafamiliari e parascolastiche, per attuare un programma di educazione fascista).

In tale ordinamento la donna continua a mantenere il suo ruolo vicario sia nella società che nella famiglia e viene invece ribadita la posizione e funzione predominante del padre-marito, con cui la donna è in rapporto di soggezione quanto meno di fatto.

Con l’evolversi dei tempi e delle concezioni, mentre da un lato l’istituto della proprietà si indebolisce di fronte a quello dell’espropriazione, sempre più orientata verso la prevalenza dell’interesse collettivo, si passa gradatamente ad una concezione dell’ordinamento e del diritto privato come strumentario necessario a creare anche strutture assistenziali, più ispirate però, come già innanzi detto, a visioni pietistiche e caritatevoli che alla garanzia di una vita libera e dignitosa.

L’ordinamento italiano culminato nel codice civile del 1942

Si perviene, poi, alla concezione, sfociata nel codice del 1942, secondo cui, pur continuando a prevalere la categoria dell’avere su quella dell’essere, tuttavia al centro dell’attenzione non è più la proprietà immobiliare quale diritto da conservare, ma l’attività produttiva, la regolamentazione del lavoro, la necessità di organizzare la produzione, la forma politica e giuridica dell’interventismo dello Stato sui rapporti economici, sia pure in modo autoritario.

Nasce così una specie di statuto del Lavoro (cosiddetta Carta del Lavoro del 21/4/1927, votata dal Gran Consiglio del Fascismo), inteso anch’ esso quale mezzo per potenziare il produttivismo; al quale, in un clima di solidarietà nazionale, sollecitato anche dal corporativismo, al fine di superare la conflittualità tra le opposte categorie di datori di lavoro e lavoratori, della produzione e del consumatore, ed in nome di un superiore interesse della stessa produzione e dello Stato, vengono sottoposti e finalizzati i diritti individuali, nonché altri istituti, quali la famiglia e l’impresa.

Per quel che concerne l’assetto dei rapporti familiari riservato ai coniugi ed ai figli, l’entrata in vigore del codice civile del 1942 non segnò sostanziali mutamenti rispetto alla normativa precedente. Peraltro, nella relazione del Guardasigilli Solmi risulta affermato che il mutamento appare essenzialmente nello spirito delle norme, poiché la loro ragione giustificativa non consiste più nella tutela dell’individuo, ma, sempre ed in ogni caso, nella protezione degli interessi superiori e permanenti della comunità nazionale, che trascendono la breve vita dei singoli.

Tuttavia si annunciava che la disciplina era stata rinnovata e adeguata alle esigenze dello Stato fascista, provvedendosi alla difesa della razza da ogni pericolosa contaminazione, rinvigorendosi i vincoli della famiglia, fondamento e ragione della continuità e della potenza della Nazione, cercando tutte quelle provvidenze che garantiscono l’equilibrio e la sanità dei nuclei familiari.

Pertanto il nuovo spirito del diritto di famiglia fu ravvisato in un’accentuazione della unità familiare e dei princìpi di autorità in una visione paternalistica che attribuiva allo Stato compiti sempre più penetranti di direzione e controllo della vita familiare.

E si ritenne dai teorici del fascismo che gli interessi del singolo dovevano essere sacrificati agli interessi del nucleo familiare, poiché il matrimonio non era un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma un atto di dedizione e sacrificio degli individui nell’interesse della società, di cui la famiglia era il nucleo fondamentale (Alfredo Rocco); e che, infatti, l’individuo non esisteva se non nello Stato e subordinato alla necessità di esso (Cicu).

Comunque, pur carente di sostanziale portata innovativa, il codice civile del 1942 introdusse una nuova disciplina della dote, l’istituto del patrimonio familiare ed alcuni miglioramenti nel trattamento giuridico dei figli naturali (specie in materia di riconoscimento).

Migliorò la tutela dei figli nati fuori del matrimonio, sia pure in limiti angusti; modificò l’adozione, quale istituto tipicamente classista perché destinato a perpetuare il nome familiare ed a conservare il patrimonio col minor onere fiscale; introdusse la figura dell’affiliazione, per dare disciplina ad una forma di convivenza familiare diffusa soprattutto al Sud, con finalità esclusivamente assistenziali (anche se bilanciate dallo sfruttamento delle forze lavorative dei sottoposti, da parte dell’affiliante) e svincolata dai più rigorosi presupposti dell’adozione.

Nel resto la nuova disciplina finì per confermare e potenziare princìpi autoritari e regole discriminatorie della donna, preesistenti al regime ed anche conformi al comune modo di sentire della gente.

La mutata tutela dei valori con l’avvento della Costituzione repubblicana del 1948

Si è già detto che il codice civile del 1942 segna e registra già un mutamento della realtà sociale rispetto a quella precedente, poiché sposta il centro della tutela dalla proprietà immobiliare terriera al lavoro ed all’impresa, intesi però come mezzi per incrementare l’attività produttiva, in regime autarchico e con l’autoritario intervento dello Stato, onde fare del produttivismo la caratteristica saliente del regime politico del momento. Sotto il quale era già stato in precedenza istituita una specie di statuto del lavoro (la cosiddetta Carta del Lavoro, votata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21.4.1927), ispirato all’ideologia corporativa e quindi di carattere diverso dall’attuale e vigente Statuto dei Lavoratori.

Continua, pertanto, anche in tale ordinamento, a prevalere, sia pure con mutate prospettive, la categoria dell’avere su quella dell’essere. Prevale, però, come interesse superiore della produzione nazionale, interesse superindividuale dello Stato corporativo; a cui i diritti individuale e familiari venivano ancora subordinati e sacrificati.

Sopravvenuta la Costituzione, anch’essa suscettibile di ulteriori evoluzioni, si è invece istaurato un nuovo modello di vita e di valori, prevalentemente orientato alla tutela dell’essere più che a quella dell’avere; al quale modello occorre ispirarsi per comprendere le nuove scelte fatte dal Legislatore e per coordinare ad esse le altre norme dell’ordinamento giuridico.

Con l’avvento di tale testo normativo (1.1.1948), infatti, la prospettiva produttivistica dell’ordinamento del 1942 viene superata dal nuovo orientamento formatosi sotto la spinta di riconquistati valori dell’uomo e delle nuove istanze ed esigenze sociali, aggiornate anche in conseguenza delle vicende storico-politiche del tempo, ed acquista rilievo il rispetto primario dei diritti fondamentali della persona umana, Sì che occorre oggi rileggere il codice del 1942, vigente in concorso con la Costituzione, alla luce della scelta ideologico-giuridica fatta da quest’ultima, in base alla quale la produttività trova limiti invalicabili nel rispetto dei predetti diritti fondamentali dell’individuo.

Tuttavia la Costituzione, pur rappresentando un mutamento radicale dell’ordinamento giuridico italiano, presenta una pluralità di ispirazioni e di ideologie vecchie e nuove; delle quali esprime una sintesi ovvero una specie di compromesso tra le tendenze liberale, marxista, cristiano-sociale e persino confessionale (v. art. 7 Cost.), pur trovandosi in essa il rifiuto di talune ideologie, quali l’impostazione corporativa della già menzionata Carta del Lavoro, alcune ispirazioni presenti negli stessi codici civile e penale, nonché le concezioni fasciste (v. XII disp. Trans. Cost.).

Essa, infatti, è scaturita da uno Stato pluriclasse, formatosi in esito al secondo conflitto mondiale ed alla caduta del fascismo.

Caratteri e contenuti del nuovo diritto costituzionale

La Costituzione, quindi, si contrappone ad altre costituzioni contemporanee, che presentano una scelta ideologica monistica; e col suo pluralismo ideologico denota la situazione del nostro ordinamento giuridico; il quale, anche attraverso crisi ideologiche, si presenta in una fase dinamica di rapida evoluzione in corso, che va comunque verso l’affermazione dell’essere sull’avere; “essere” individuale e collettivo ad un tempo, rispetto al quale l’ “avere” si pone nel ruolo strumentale di una precipua funzione sociale, per la realizzazione di valori che vanno al di là di quello patrimoniale, quali l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e la possibilità per gli stessi di partecipare effettivamente alla vita delle comunità di cui sono parte, secondo il principio di democraticità, che è alla base del moderno Stato costituzionale (v. artt. 1 comma 2, 2, 3 Cost.).

In particolare, secondo la Costituzione, la proprietà ha funzione sociale (art. 42); non è più soltanto un diritto soggettivo, ma anche un dovere, nel senso che non è concepibile una proprietà esercitata nell’egoistico interesse del titolare o addirittura non esercitata o oggetto di abuso.

Inoltre, per l’art. 41 Cost., benché l’iniziativa economica privata sia libera, tuttavia la stessa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Vi è quindi una funzionalizzazione dei fini dell’impresa, che devono essere sì quelli del profitto, ma che devono pur sempre coincidere e rispondere all’utilità sociale. E vi è inoltre il divieto di attività imprenditoriale dannosa per taluni beni fondamentali dell’individuo (sicurezza, libertà, dignità).

Infine, giusta art. 41/3 Cost., l’intervento dello Stato nei rapporti economici non è più occasionale e sporadico, ma è funzione di stabile programmazione, ragionata e socialmente utile, delle strutture sociali.

Tale intervento, visto poi in relazione all’art. 3/2 Cost., si giustifica anche per la finalità di tutelare la libertà dei cittadini e lo sviluppo, pieno e dignitoso, della persona umana.

Si è così passati, da uno Stato spettatore o conservatore delle situazioni patrimoniali, ad uno Stato attivamente impegnato nella modificazione della realtà sociale.

Quanto, poi, all’anzidetto principio di democraticità, esso involge la valutazione di molti contratti tipici; ed ha altresì rilevanza in alcune associazioni e formazioni sociali tipiche previste dalla stessa Costituzione, quali le confessioni religiose (8), le comunità scolastiche, la famiglia (29), il sindacato (39), il partito politico (49), le Forze armate (52/3), il sistema rappresentativo ed il referendum (75 ss., le società,), le associazioni e le comunità in genere (2).

Nella vigente Costituzione risultano, poi affermati anche nuovi princìpi relativi alla famiglia, la quale, in virtù degli artt. 29,30,31, ottiene infatti il riconoscimento di una posizione di autonomia rispetto allo Stato, che riconosce i diritti della stessa come società naturale.

Si afferma il principio della parità morale e giuridica dei coniugi; si garantiscono i diritti dei figli e si stabiliscono provvidenze in favore dei minori in caso di incapacità dei genitori; si pongono, inoltre sullo stesso piano, salva compatibilità, i diritti dei figli legittimi e di quelli nati fuori del matrimonio.

A differenza del precedente modello autoritario, quella della famiglia considerata anche da altre norme della Costituzione risulta invece ispirata, oltre che al principio di libertà ed autonomia, anche al principio del consenso, quale unica regola di governo dei rapporti familiari, nonché al principio del rispetto della personalità dei singoli membri, nella funzione di coniugi (eguaglianza morale) o nella posizione di figli (diritto ad essere educati, istruiti, mantenuti, senza discriminazione di “status”).

Nella nuova normativa, invero, la famiglia ed i suoi problemi hanno l’importanza di questioni sociali.

Infatti i cit. artt. 29,30,31 Cost. rappresentano una specificazione, nel gruppo familiare, dei princìpi ex artt. 2 e 3 Cost., essendo anche la famiglia una formazione sociale ove si svolge la personalità dei singoli, di cui la Repubblica tutela i diritti inviolabili, e costituendo essa la prima cellula nella quale devono essere eliminate contraddizioni, disparità e discriminazioni.

Inoltre il diritto al lavoro ex art. 4 Cost., su cui si basa anche la vita familiare, va collegato con la tutela dell’attività lavorativa ex art. 35, con il diritto ad una retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art.36) e col diritto al tempo libero (art. 36/3).

Le norme poi sull’emancipazione femminile rivalutano la posizione della donna nella famiglia (29), così come nella società e nell’ambiente di lavoro (39).

Altre norme, infine, sopperiscono alle carenze delle funzioni familiari, sia sotto l’aspetto dell’istruzione ed educazione dei figli (34/3), sia sotto l’aspetto del mantenimento e dell’assistenza (31).

L’ulteriore divenire dell’ordinamento giuridico

Ad armonizzare la preesistente normativa con la Costituzione, è poi intervenuta l’opera della Corte Costituzionale, ad esempio in tema di eguaglianza giuridica e morale dei coniugi ex art. 29/2 (fedeltà coniugale, donazioni tra coniugi, lavoro casalingo, rapporti coi figli), di posizione giuridica dei figli ex art. 30 (diritti successori, legittimazione, dichiarazione giudiziale di paternità, alimenti), ed in altri argomenti.

Inoltre, il Legislatore ha ulteriormente ritoccato l’ordinamento con importanti innovazioni, aderenti alle mutate concezioni ed esigenze sociali, quali il divorzio (L. 1.12.1970 n. 898), la maggiore età al 18° anno (L. 8.3.1975 n. 39), la riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975 n. 151), l’aborto (L. 22.5.1978 n. 194).

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