RIDATECI I “PUZZONI” D’IRPINIA

Tradotto dal romanesco, anche se perde molto in efficacia lessicale, l’invocazione è: “Ridateci i Puzzoni!”.

In Irpinia nessuno lo grida pubblicamente ma in tanti – proprio tanti, di sicuro una stragrande maggioranza per di più qualificata – lo pensano.

I nostri Puzzoni sono loro: quelli che hanno scritto la storia politico-istituzionale degli ultimi 50-60 anni della provincia avellinese. I nomi si conoscono, superfluo rifarli.

Il senso della parola “Puzzone” non è lo stesso riferito alle scritte comparse sulle cantonate romane nel 1944. I nostri Puzzoni in niente e per niente possono essere avvicinati al Duce. Altra epoca, altra cultura democratica, altro di tutto.

Il senso è malinconicamente di rimpianto di una classe dirigente irpina – di sinistra, di destra, ma soprattutto di centro – verso cui non abbiamo mai omesso rilievi critici anche durissimi, ma che al confronto con le attuali rappresentanze ai diversi livelli istituzionali e partitici meriterebbe di essere collocata senza se e senza ma nel Pantheon della Politica.

Il dramma è che più si avanti tanto più i profili peggiorano. Un esempio abbastanza recente: lamentavamo, invero non sempre a ragion veduta, la qualità e l’impegno della rappresentanza parlamentare irpina eletta nel 2013. Ci perdoneranno i deputati e senatori trascinati a Montecitorio e a Palazzo Madama nel 2018 dallo tsunami 5Stellle – fenomeno paradossale della natura e inciampo della storia unico e irripetibile – epperò mai la politica irpina è stata incarnata nella dimensione di assoluta irrilevanza di questi ultimi tre anni.

Ancora nel quinquennio precedente, giusto per non andare troppo indietro nel tempo, si poteva quanto meno apprezzare lo sforzo degli “eletti” per far contare qualcosa il territorio irpino nei Palazzi romani del Potere. E comunque si creavano occasioni di dibattito sui problemi della provincia, si provava a tratteggiare una qualche strategia di sviluppo, se non altro – mettiamola così – si lanciavano sassi nello stagno.

Da tre anni a questa parte è come se stessimo partecipando un po’ tutti, consapevolmente o non, alla morte assistita dell’Irpinia, una sorta di eutanasia della storia stessa di questa provincia.

Si dà spesso la colpa al Covid, trascurando un dettaglio essenziale: è proprio nelle emergenze che la politica locale è chiamata a dimostrare le sue capacità. Qui è accaduto l’esatto opposto: il Virus utilizzato per giustificare un colpevole disimpegno politico, al netto delle spocchiose e ininfluenti passerelle di qualche sottosegretario per caso; il Virus come spiegazione per nascondere faccia e responsabilità dietro mascherine trasudanti nullafacenza e ipocrisia.

Venerdì scorso ho moderato a Calitri un convegno sul tema degli incentivi e delle aree a tasse zero finalizzati ad attrarre imprese nel Sud: una discussione decisamente interessante alla vigilia della Grande Spesa per investimenti pubblici sostenuta dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Affianco alla certezza del fiume di soldi che inonderà il Mezzogiorno – quindi anche la Campania, dunque l’Irpinia – è emersa in tutta evidenza la realtà di una provincia politicamente sconnessa, orfana di riferimenti carismatici e perfino di strutture di partiti appena riconoscibili, priva d’un disegno organico di sviluppo, di fatto sopravvivente alle poche cose serie e intelligenti propiziate dai parlamentari ante-tsunami 2018, una per tutte la Stazione Hirpinia dell’Alta Velocità/Capacità Napoli-Bari (invero andrebbe almeno aggiunto il cantiere dell’asse viario Lioni-Grottaminarda, sospeso per circa due anni proprio “grazie” ai parlamentari 5 Stelle: come dire una pena da contrappasso che l’Irpinia assolutamente non meritava).

L’esemplificazione della qualità della classe parlamentare fa il paio con quella degli altri livelli istituzionali che contano: ve ne risparmio i capitoli individuali, equivarrebbe a sparare sulla Croce Rossa. Oltre tutto bastano e avanzano i fatti già abbondantemente registrati nella memoria collettiva di questa sventurata provincia.

C’è un dramma nel dramma irpino testé tratteggiato. Dai Palazzi romani del Potere reale trapela con sempre maggiore fondatezza l’indiscrezione secondo cui si andrebbe alle elezioni generali alla scadenza naturale del 2023, anche se Mario Draghi venisse convinto a traslocare al Quirinale, posto che Mattarella è concretamente orientato a porre fine alla sua missione, come peraltro dimostra l’udienza di congedo concertata con Papa Francesco per il 16 dicembre.

Il dramma – ci scuseranno ancora gli addetti ai lavori in carica – è che si dovranno attendere altri due anni affinché, con il ricambio della classe dirigente istituzionale di vertice, si possa dare l’impulso giusto al necessario processo di radicale rinnovamento della politica irpina.

Nel frattempo, sarebbe esercizio buono e giusto se allenassimo la nostra coscienza collettiva ad una più scrupolosa osservazione della realtà in cui viviamo. A questa opera, complessa ma utilissima, potrebbe dare un contributo immenso la “borghesia” irpina, specie quella intellettuale e onesta, che da troppi anni – per sfiducia, per egoismo o semplicemente per pigrizia – si è ritirata nel rifugio privato, lasciando così assai spesso il compito di “pensare politico” a chi non ha “pensiero”. È una fuga dalle responsabilità che la storia della provincia avellinese non merita.

I commenti sono chiusi.