CONOSCENZA E AVVENTURA
… “Fatti non foste a viver come bruti…”
Ulisse, “quell’uomo di multiforme ingegno… che città vide molte, e delle genti l’indol conobbe” (Od. I, 1 ss.), tra mille imprese e vicende aveva al suo attivo anche la conquista di Troia con l’inganno del ben noto cavallo di legno (Od. VIII, 655 ss.), l’accecamento del ciclope Polifemo con il tronco infuocato (Od. IX, 274 ss.), la discesa nell’Ade per avere dall’indovino Tiresia istruzioni sul proprio ritorno a Itaca (Od., XI, 132 ss.), l’incontro con l’ombra della propria madre Anticlea, invano abbracciata tre volte (Od. XI, 265 ss.), nonché del tradito Agamennone e del deluso Achille (Od. XI, 495 ss, 591 ss.).
E non poté Dante perdere la ghiotta occasione di “intervistare” lo spirito di quello stesso Ulisse, rinvenuto nell’ottavo cerchio dell’Inferno insieme a Diomede, ciascuno in una lingua d fuoco (Div. Com., Inf. 24°, 79 ss.).
L’eroe, pertanto, prese a narrare la sua ultima impresa per tentare di conoscere anche il mondo oltre il divieto delle Colonne d’Ercole, non fermato neppure dall’affetto per il figlio Telemaco, dalla venerazione per il vecchio padre Laerte, né dall’amore da lui dovuto alla fedele moglie Penelope.
Ulisse ottenne altresì l’aiuto dei pochi suoi compagni superstiti, i quali, nonostante la loro tarda età, contribuirono volentieri a far dei remi “ali al folle volo”, spronati da lui con una “orazione spicciola” (… “non vogliate negar l’esperienza/di retro al sol, del mondo sanza gente./Considerate la vostra semenza/; fatti non foste a viver come bruti/, ma per seguir virtute e canoscenza”.) (Div.Comm., Inf. 26°, 118 ss.).
Ma proprio per questa insanabile voglia di conoscere anche oltre il consentito “dov’Ercole segnò li sui riguardi/acciò che l’uom più oltre non si metta” (Div. Comm., Inf. 26°, 108/109), essi andarono incontro alla perdita della vita, provocata dall’enorme onda che ghermì la loro imbarcazione facendola “roteare”, finché il mare fu su di loro rinchiuso. Infatti era folle ardimento varcare il confine posto alla ragione, con quel viaggio che non era consentito all’uomo da una volontà superiore.
Già dalla più remota età si ha notizia di questo divieto e della sanzione portata dalla sua disobbedienza.
La Bibbia, infatti, racconta (Genesi, 2, 8-3,19) che Dio piantò in Eden un giardino e vi collocò l’uomo che aveva creato, ma comandò di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza, sotto comminatoria di morte. Senonché il furbo serpente convinse la donna, prospettando che, invece, mangiando quei frutti, essi sarebbero divenuti come Dio conoscendo il bene e il male.
La donna, allora, ne mangiò e ne diede anche al marito. Si accorsero allora di esser nudi e se ne vergognarono coprendosi con foglie di fico. Tentarono altresì di nascondersi, ma il Signore li trovò; e, per giustificarsi, Adamo incolpò Eva e costei incolpò il serpente; ma Dio condannò il serpente a strisciare sul ventre, cacciò dall’Eden i due esseri umani, condannando la donna a partorire con dolore e l’uomo alla fatica del lavoro per procurarsi da vivere. E così, mentre ogni felicità poteva provenire dal Signore, la loro sofferenza derivò dalla disobbedienza ai suoi comandamenti, per la tentazione di sentirsi più furbi e più intelligenti di Lui e di perseguire la conoscenza proibita.
Anche dalla mitologia, che distilla la saggezza dei popoli, proviene a volte analogo monito, come nel racconto di Pandora, la bella fanciulla che, (come dall’etimologia del suo stesso nome), aveva già ricevuto doni da tutti ed ebbe da Giove il dono di un vaso ben chiuso, con la raccomandazione di non aprirlo per alcun motivo. Senonché lei, vinta dalla curiosità di conoscere il suo contenuto, un giorno tolse con forza il coperchio al vaso, dal quale si sprigionò subito un soffocante fumo che cresceva di intensità, insieme ai pianti, minacce, beffarde risate, imprecazioni ed altre espressioni. Insomma, dentro a quel vaso, Giove aveva raccolto tutti i mali che gli uomini ed il mondo ancora non conoscevano e che ora, per la disobbedienza di una donna, si erano per sempre e dovunque diffusi, sì che non sarebbe più stata felice, da allora in poi, la vita dell’umanità.
Non altrimenti avvenne nella vicenda di Prometeo, il quale, amando gli uomini, che erano indifesi e privi di ogni mezzo per poter vivere bene, volle aiutarli fornendo loro il mezzo onnipotente del fuoco che li poteva rendere padroni della terra. A tal fine ne rubò alcune scintille al dio fabbro Vulcano che le possedeva e le donò agli uomini, sì che poco dopo tutta la terra ne fosse illuminata.
Senonché il fuoco apparteneva agli dei e Giove, accortosi del furto, ordinò che venisse punito Prometeo per la sua violazione, facendolo incatenare su un’alta rupe. Per giunta veniva ogni giorno un’aquila che con gli artigli sventrava Prometeo divorandogli il fegato; il quale si ricostituiva per il giorno dopo e se ne ripeteva il supplizio, finché Ercole, col permesso di Giove, suo padre, abbatté l’aquila, spezzò le catene e liberò Prometeo, che, trasformatosi in una grande roccia, rimase per sempre su quella rupe, per essere ivi ricordato dagli uomini
cui aveva dato beneficio. In un’altra delicata storia mitologica si racconta di Orfeo, magico suonatore di cetra che, con la sua bravura, incantava il mondo nell’ascoltarlo, innamorato della bella ninfa Euridice, divenuta sua sposa ma, purtroppo, deceduta dopo poco perché morsa da un serpente velenoso.
Ma Orfeo, non rassegnandosi al suo dolore, si recò nel regno dei morti, attraversando il confine del fiume Stige e commovendo le fiere infernali poste a guardia, col dolcissimo suono della sua cetra, sino a giungere al cospetto delle ombre e farsi concedere il ritorno in vita della sua Euridice. Gli fu però imposta la condizione che la fanciulla, sulla via del ritorno, seguisse il cammino di Orfeo e costui non dovesse mai volgersi a guardarla, altrimenti l’avrebbe perduta per sempre.
Orfeo aderì, ma quasi alla fine del cammino, non sapendo più resistere, si volse indietro per guardare l’amata e questa svanì rientrando definitivamente nel buio del regno dei morti. Orfeo pianse per siffatta perdita ed il suo dolore rese triste il suono della cetra di lui, che continuò a pensare soltanto ad Euridice, finché non venne ucciso dalle altre donne della Tracia, esasperate per il suo contegno.
Dal tempo di questi e di tanti altri candidi racconti mitologici, sono poi passati secoli ed anzi millenni, sino a pervenire ai giorni nostri; nei quali l’uomo, preso dalla smania delle conquiste, ha fatto ampliare a dismisura quel vaso di Pandora, riempiendolo, in aggiunta ai mali preesistenti (dolori, dispiaceri, delusioni, odi, vizi, malattie, ecc.), anche di nuovi e più distruttivi morbi, come l’inquinamento del pianeta, dei suoi mari e dell’aria (provocata dalla scostumatezza degli abitanti), l’ingiustizia sociale e la prevaricazione a danno dei simili, il pregiudizio nucleare da disastri colposi o addirittura da già sperimentate e sempre minacciate guerre atomiche. E, pesantemente, contribuiscono a gonfiare quello stesso vaso anche mali non ascrivibili né a dolo né a colpa degli uomini, quali la più recente pandemia mortale del “coronavirus”, maledetta.
Pertanto quel vaso ribolle minacciosamente, col pericolo che ne salti di nuovo il coperchio con ancor più perniciosi effetti.
Anche l’albero della conoscenza è stato “sfruttato” come non mai, però con continue scoperte ed invenzioni utili, grazie al grande progresso culturale e scientifico dell’uomo in tutti i campi del sapere e persino in quello del cosmo con la conquista o lo “sfioramento” di altri corpi celesti.
Ciò gli ha consentito di far spostare molto in avanti il vecchio limite delle colonne d’Ercole, sempre in ossequio allo sprone dantesco di “seguir virtute e canoscenza”; e di carpire, ancor più i segreti della Natura, purtroppo maltrattata spesso pur appartenendo al Creatore in esso immanente o forse essendo essa stessa Dio.
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