LE COMUNALI IRPINE E “MONTEFALCIONE DEI MEDICI”
“Caro Franco, una situazione veramente preoccupante: in otto dei 33 comuni irpini chiamati al voto è stata presentata una sola lista. È un segnale di “spegnimento” delle nostre comunità. Di questo passo, nei prossimi anni sarà difficile trovare chi è disposto a candidarsi a sindaco perfino senza avversari”.
Il whatsapp che avete appena letto l’ho ricevuto ieri da un vecchio e carissimo amico con una consolidata esperienza politico-istituzionale sia locale che ministeriale.
È chiaro il ricorso al paradosso per rafforzare il concetto – assolutamente fondato – del disinnamoramento verso l’impegno politico, specie di quello amministrativo comunale, di una fascia sempre più larga di cittadini. Tuttavia, c’è qualcosa ancora più grave del rischio della rinuncia denunciato in quel messaggio: è la circostanza che ad abbandonare la scena sia un numero sempre maggiore di persone capaci, culturalmente attrezzate e di comprovate qualità morali. Ovvero, salvo rare eccezioni, è il rischio di lasciare sempre più campo libero agli incompetenti, agli improvvisati, ai disonesti. Se questa prospettiva si alimentasse ancora di più, i sintomi di “spegnimento” delle nostre comunità diventerebbero evidenza d’una patologia sociale cronicizzata, dunque non più recuperabile.
Qualcuno, nei commenti sulle liste irpine depositate sabato, ha rilevato l’assenza totale di simboli delle forze politiche, maliziosamente chiosando che stavolta i partiti si sono nascosti. Ciò non deve sorprendere: accade da decenni alle comunali, specie laddove si tratti di piccoli comuni, come nel caso d’Irpinia.
Il rilievo ha comunque una sua fondatezza e trascende la dimensione localistica. Prendete l’esempio di due episodi eclatanti riferiti al Partito Democratico. Il primo: 4 marzo 2021. Nicola Zingaretti si dimette via Facebook da leader nazionale del Pd con la seguente motivazione: “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”.
Parole sacrosante, gesto coraggioso e fortemente significativo. Epperò, se si vergognava lui stesso del Pd di cui era il Capo, è comprensibile l’insorgenza di qualche imbarazzo anche in chi si candida a sindaco e preferisce non avere simboli di partito.
Il secondo episodio riguarda il successore di Zingaretti arrivato per sostanziale “nomina” fatta da Bettini (la stragrande maggioranza dei lettori non sa chi sia Bettini, ma è un dettaglio ininfluente!). Il successore, come tutti sanno, è Enrico Letta. Il quale, legittimamente, sceglie di candidarsi alle suppletive del collegio di Siena per coprire il seggio lasciato vacante alla Camera da Pier Carlo Padoan, eletto sotto il simbolo Pd e dimessosi il 4 novembre 2020 per essere entrato nel Cda di Unicredit.
Sorpresa generale, però, quando il segretario nazionale del Pd annuncia la “bandiera” che impugnerà per chiedere il voto il 3 e 4 ottobre nel collegio uninominale 12 della Toscana: cerchio a sfondo rosso, sovrimpressa scritta in bianco “Con Enrico Letta”. Lì per lì qualcuno deve aver pensato che l’acronimo Pd fosse saltato per una grossolana dimenticanza del grafico. Macché! L’aveva chiesto proprio lui, il Capo del Partito Democratico, di omettere le due lettere nel simbolo. Poi è arrivata la spiegazione: niente Pd per rispetto verso le altre forze dell’alleanza. Giustificazione deboluccia, oltre che tardiva: tanto moscia che è stato automatico l’avvicinamento al sentimento di “vergogna” per il proprio partito confessato da Zingaretti cinque mesi prima.
Enrico Letta ha fatto una scelta molto discutibile, ma la colpa non è sua. Tutto deriva dalla crisi profonda in cui i partiti sono precipitati, non da oggi, e dall’impotenza che i loro leader stanno manifestando nel tentativo di rigenerarne la credibilità.
D’altronde non si può essere credibili – la politica diventa incredibile – quando i partiti, tutti nessuno escluso, continuano a tollerare che certi principi etici vengano trattati alla stregua di disinvolti comportamenti opzionali.
Non bisogna andare lontano per trovarne una qualche illuminante esemplificazione. Restiamo in Irpinia, restiamo al tema che ha dato l’input all’editoriale che state leggendo: le liste delle elezioni comunali. Restiamo in Irpinia, solleviamo lo sguardo da quegli otto comuni in cui corre un solo candidato sindaco, segnale preoccupante di progressivo “spegnimento” delle nostre comunità, e puntiamo gli occhi su Montefalcione, “Montefalcione dei Medici” (dei, non de’ Medici), che a questo editoriale ha dato invece un titolo metaforicamente pieni zeppo di negatività politica.
Qui, per il terzo rinnovo consecutivo dell’Amministrazione, si candida a sindaco un membro delle famiglie di Medici “Belli-Baldassarre”, ovvero delle famiglie che hanno direttamente governato il paese negli ultimi dieci anni. Per carità, tutto perfettamente in linea con la Costituzione e con le leggi che disciplinano le elezioni comunali e provinciali. Per dieci anni è stato sindaco il Medico di famiglia Maria Antonietta Belli; per il terzo eventuale mandato – causa di forza maggiore, cioè per incandidabilità – alla madre Medico di famiglia è subentrata la figlia Rossella, anch’ella Medico, che naturalmente porta il cognome del compianto padre Baldassarre, un tempo pure Medico di famiglia a Montefalcione. La candidata sindaco può oltretutto godere del naturale sostegno di un altro Medico “in” famiglia: la sorella Titti, che a sua volta è moglie ancora di un Medico, l’ottimo pneumologo del “Moscati”, Palmieri. Non è Medico, ma in compenso ha accettato di essere in lista per dare man forte, una cugina della candidata sindaco, Maria Rosaria Baldassarre. È medico e apprezzato oncologo, invece, Mario Belli: zio della dottoressa Rossella e fratello della già citata e due volte sindaco Maria Antonietta Belli.
Insomma, una famiglia ben nutrita di Medici, e molto unita, che inevitabilmente, ancorché legittimamente, esercita un rilevante potere psicologico – ecco il problema di etica politica – sull’elettorato di un paese che conta poco più di tremila anime. È chiaro che, consentendolo la legge, i Belli-Baldassarre Medici hanno tutto il diritto di candidarsi e sparare le cartucce che hanno in canna. È una questione antica, di Montefalcione e di tantissimi altri comuni italiani, che le forze politiche non hanno mai voluto affrontare, evidentemente perché fa comodo avere Medici “raccoglivoti” tra i propri assistiti, a prescindere dal grado delle loro capacità amministrative.
Sotto questo aspetto, “Montefalcione dei Medici” fa specie. In dieci anni di Amministrazione Belli-Baldassarre, in questo Comune, forse caso unico in Irpinia, non è stata realizzata una sola opera pubblica, né si è visto sul piano progettuale qualcosa che assomigli ad un percorso di sviluppo per l’immediato o per il futuro prossimo e remoto. Niente: una stucchevole inerzia che dà un senso totalmente negativo alla metafora usata con il richiamo indiretto alla “Signoria dei Medici”. I protagonisti di quella Casata – che poi erano tutt’altro che Medici propriamente detti – di Opere ne fecero talmente tante e talmente Grandi da essere ancora apprezzatissime nel mondo.
A “Montefalcione dei Medici” niente: nemmeno – si fa per dire – una strada interpoderale che non associ il pensiero alle vecchie mulattiere. Al contrario, emblematica “opera” devastatrice, una mano di bitume per sostituire i marmi rotti d’una piazza un tempo decorosa. Giusto per dire della nonchalance – leggi pure insipienza – amministrativa di chi, se non avesse fatto il medico, giammai sarebbe potuto diventare sindaco per ben due volte.
P.S.: Domanda: lo sfidante candidato sindaco di Montefalcione, Angelo Antonio D’Agostino, avrebbe fatto di più e meglio della gestione Belli-Baldassarre? Boh! Di certo si sa cosa ha fatto – cioè niente – il sindaco Belli in dieci anni.
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