La Torre di Babele
Anni fa ho avuto il privilegio di conoscere una scrittrice molto nota negli ambienti culturali romani, Giacoma Limentani – per gli amici Giacometta – ebrea osservante e donna di straordinaria cultura. Come spesso accade nelle relazioni sociali intense e significative, questa esperienza mi ha radicalmente trasformata, modificando in maniera rilevante l’approccio alla filosofia del dialogo che praticavo già da tempo sulla base di ricerche e sperimentazioni sulla cooperazione cognitiva ed emotiva in soggetti nell’età dello sviluppo e tra persone adulte. Ho seguito Giacometta in vari seminari e specialmente in un indimenticabile incontro interconfessionale organizzato a Roma dalla comunità valdese, con la partecipazione di esponenti della religione ebraica tra cui Tullia Zevi e il rabbino capo della capitale Elio Toaff. In tale occasione erano presenti, insieme ad un nutrito gruppo di cristiani (cattolici e protestanti) anche numerosi studiosi di fede mussulmana. La compresenza di varie identità culturali e professioni religiose rendeva questo convegno particolarmente intrigante dal punto di vista culturale e relazionale. Nell’aula magna della casa valdese che ci ospitava, si aveva l’impressione che ogni contributo reso dai relatori in termini di comunicazione frontale – o dialogica, nei dibattiti – fosse un dono reciproco di amicizia. Le visite programmate per noi alla grande moschea e alla sinagoga di Roma furono veramente un’esperienza di full immersion nell’alterità di mondi divergenti e contrastanti che in passato si erano accanitamente combattuti in lunghe e sanguinose guerre di predominio, ma che ora sembravano scoprire la ricchezza della gratuità e della reciprocità solidale.
E fu così che le volute dello sterminato cielo azzurro trapuntato di stelle che fa da soffitto all’imponente moschea di Roma videro i nostri timidi passi di pellegrini a piedi nudi, tra cui spiccavano le figure femminili col capo rigorosamente coperto da lunghi veli neri forniti all’ingresso dal personale addetto al cerimoniale. L’Imam ci accolse con parole di grande fraternità, mostrandoci tra l’altro i tesori contenuti nei locali della grande biblioteca in dotazione alla scuola coranica. La visita della sinagoga fu invece preceduta da una lunga e minuziosa perquisizione personale e dal passaggio attraverso il metal detector: inflessibili regole di sicurezza imposte dal sanguinoso attentato subito alcune settimane prima dalla struttura ad opera del terrorismo internazionale. All’interno della storica costruzione, la sacralità del luogo imponeva agli uomini di indossare la kippah, il tradizionale copricapo a calotta circolare, fornito anche questa volta dagli addetti alla sorveglianza. Meraviglioso fu per noi visitatori constatare la dovizia di mappà (preziosi tessuti antichi di velluto e damasco per la tradizionale vestizione del Sefer Torà, il rotolo della Legge) custoditi nell’anticamera della sala principale, alcuni risalenti al ‘500. A seconda del rituale, la vestizione si rinnova nelle varie celebrazioni; compresi così che tutto nella sinagoga celebra e inneggia alla Parola rivelata, concentrando su di essa lo stupore e l’attenzione dei fedeli.
Per gli israeliti, la Parola rivelata è una lettera d’amore indirizzata da Dio all’umanità, ma anche ad ogni singolo uomo, per cui va interpretata e commentata con varie modalità, anche strettamente individuali. Infatti, nell’ Ebraismo non esistono dogmi, se non quello dell’unicità personale del Dio creatore; per di più, le singole lettere dell’alfabeto ebraico hanno anche un valore numerico, il che consente di effettuare tutta una serie di riflessioni teologiche inedite ed estemporanee connesse alla Cabala. Ma l’elemento più stupefacente della cultura ebraica è il midrash, che è la modalità dialogica con cui i rabbini interpretano le scritture. Giacoma Limentani è stata una grande cultrice del midrash, cui ha dedicato alcuni interessanti testi, da cui ho ricavato questo commento al racconto biblico della Torre di Babele:
Rinati dopo il diluvio, gli esseri umani parlano una sola lingua e usano le stesse espressioni, per cui tutti d’accordo si dicono l’un l’altro: “Suvvia, facciamoci una torre la cui cima arrivi al cielo”.
“Ecco, sono un popolo solo, hanno un’unica lingua e questa è la loro opera!”
Orsù, scendiamo e confondiamo le loro lingue “(è il commento divino).
Nella conclusione di questo episodio si è spesso voluto vedere un’esemplare dimostrazione della gelosia del prepotente, sospettoso e violento Dio d’Israele, che non tollera l’accordo tra gli uomini e teme di venire spodestato.
Il racconto (midrash) individua invece nella reazione divina la somma di una serie di preoccupazioni che vale la pena di prendere in considerazione:
1) La costruzione della torre è un’impresa folle, perché in cielo non si può arrivare.
2) La torre ha struttura verticale, per cui anche se potesse arrivare in cielo, i primi ad arrivarci sarebbero al massimo due o tre. È quindi lecito chiedersi se questi due o tre sarebbero disposti a cedere il loro posto ad altri, per far provare anche a loro come ci si sta.
3) E quale nutrimento potrebbe offrire il cielo a questi due o tre fortunati?
4) E allora quegli altri che, per non essere giunti in cielo insieme con loro dovrebbero continuamente fare su e giù dalla terra per portare da mangiare ai due o tre fortunati, non diventerebbero automaticamente loro servi?
“Punisci questi pazzi!” dicono gli angeli a Dio. “Sterminali come hai sterminato la generazione del diluvio. Non vedi che hanno perso il senso dei valori?” Ma Dio non vuole punirli, perché agiscono di comune accordo e la pace è il massimo dei beni. Perché la loro diventi una vera pace, prova a farli ragionare dividendo le loro lingue, in modo che facendo fatica a comprendersi si interroghino l’un l’altro e così riflettano. Lingue diverse ed espressioni diverse generano idee diverse e quindi il dialogo indispensabile sempre, ma soprattutto quando una meta comune sta diventando monomania e rischia di portare alla follia.
Vale dunque sempre la pena di affrontare la fatica di tradurre il proprio linguaggio in modo che sia comprensibile agli altri; lo sforzo compiuto ripaga in termini di riflessione anche lo stesso autore del ragionamento, che chiarisce meglio anche tra sé e sé i termini della questione. Non solo, ma la libertà accordata a tutti gli interlocutori di interpretare a loro modo il testo sacro produce una molteplicità di suggestioni che a loro volta determinano scambi inediti e confronti molto proficui sul piano cognitivo ed emotivo.
Il midrash è un modello di dialogo veramente democratico, perché presuppone una totale simmetria tra gli interlocutori e non cede alla tentazione di un’ermeneutica pilotata, destinata a generare una ‘verità’ già concepita da chi si trova alla guida del dialogo non come facilitatore della comunicazione ma quasi con un ruolo di persuasore occulto. E pensare che questo modello dialogico è contemporaneo – se non antecedente (la sua origine si perde nella notte dei tempi) – a quello socratico, ma non ha trovato mai altrettanta diffusione nei circuiti consueti della cultura mondiale, forse anche per lo scarso interesse che hanno avuto gli ‘addetti ai lavori’ alla sua pubblicizzazione all’esterno dell’Ebraismo. Ad un tale atteggiamento ha fatto da contraltare un’inconsapevole sottovalutazione della cultura ebraica nei circuiti culturali da parte di certe correnti storico-filosofiche, che si ritengono detentrici di un pensiero laico e su questa base pretestuosamente scartano a priori – con sbrigativa superficialità – alcune stimolanti suggestioni della teologia, ritenendole dogmatiche.
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