“State contenti, umana gente, al quia”
Dante e Virgilio (Purg. 3°) si affrettano verso il monte del Purgatorio, mentre alle loro spalle il sole risplende di rosso; ma solo il corpo di Dante proietta dinanzi a sé la propria ombra (“Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio/, rotto m’era dinanzi a la figura,/ch’avea in me de’ sui raggi l’appoggio”). Pertanto il poeta nota che il proprio corpo fa ombra, mentre quello di Virgilio lascia passare il sole; e di ciò si preoccupa temendo di essere abbandonato dalla sua guida (“Io mi volsi dallato con paura/d’essere abbandonato, quand’io vidi/solo dinanzi a me la terra oscura”).
Si presenta, così, la configurazione del corpo e dell’anima, già prospettata da Dante (inf. 1°) allorché, presso la selva oscura, invoca l’aiuto di chi “per lungo silenzio pare fioco”, gridando verso la sagoma da lui scorta “miserere di me”, “qual tu sii, od ombra od omo certo!”. E più volte nel cammino (Purg. 35°) sarà Stazio, esortato da Virgilio, a parlare della funzione incorporea delle ombre, spiegando, tra l’altro, che, al sopraggiungere della morte, l’anima si scioglie dal corpo e porta con sé, virtualmente, le potenze corporali e spirituali. Di esse, le potenze vegetativa e sensitiva rimangono inerti, non avendo più a disposizione i loro organi, mentre quelle dell’anima (memoria, intelligenza, volontà) si accrescono più di quando erano unite alla materia (“Quando Lachesis non ha più del lino,/solvesi da la carne, e in virtute/ ne porta seco e l’umano e ‘l divino;/l’altre potenze tutte quante mute;/memoria, intelligenza e volontade/in atto molto più che prima agute”).
A superar le persistenti incertezze di Dante (“Perché pur diffidi?”), Virgilio lo conforta e lo ammonisce sui limiti della ragione umana. E gli dice che non c’è da meravigliarsi se gli spiriti dei defunti non proiettano ombre (così come, per converso, essi possono patire tormenti fisici pur avendo corpi immateriali): “Ora, se innanzi a me nulla s’aombra/non ti maravigliar più che d’i cieli/ che l’uno o l’altro raggio non ingombra””.
Spiega altresì che il corpo immateriale soffre le pene volute da Dio (“a sofferir tormenti e caldi e geli”), “che come fa non vuol ch’a noi si sveli”.
Ed a riguardo del mistero trinitario, dice “Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/, che tiene una sustanza in tre persone”. È d’uopo, infatti, sapere che le cose “sono”, ma senza pretendere di conoscere anche il “come” ed il “perché”, in quanto ci è dato sapere soltanto ciò che Dio ci rivela; ma, da sé, una mente limitata, come quella umana, non ci potrebbe arrivare mai. Consegue perciò l’avvertimento: “State contenti, umana gente” al quia;/chè, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria”.
E’ questo l’ammonimento a non superare i limiti della ragione, ma di restare ancorati ai dati di fatto, accontentandosi di quel che c’è, senza pretendere di capire oltre, così credendo all’esistenza di qualcosa solo in quanto esiste (“quia est”), e cioè a quelle realtà di fatto che, per la loro evidenza, non hanno bisogno di spiegazione ulteriore, perché altrimenti non sarebbe stata necessaria la grazia della Rivelazione di Gesù Cristo, elargita con la sua incarnazione nel grembo della Vergine Maria.
Ma sempre con l’avvertimento tomistico per cui, con l’ausilio della ragione, noi possiamo arrivare a conoscere il “quia est” di Dio, e cioè “il fatto che Egli è”, ma non il “quid est”, cioè che “cosa è”, atteso che l’essenza di Dio rimane oggetto di Fede.
Pertanto, là dove la ragione incontra il suo limite, può l’uomo andare oltre soltanto in virtù della Fede, proprio come Dante che, nel suo viaggio nell’aldilà, può conoscere l’Inferno e il Purgatorio, accompagnato e guidato da Virgilio, che rappresenta la sua stessa ragione, idonea a fargli avere consapevolezza; ma, invece, per accedere poi ai dogmi e misteri del Paradiso, avrà bisogno del sostegno della Fede, impersonata da Beatrice.
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