“Una lettera dalla sofferenza a San Giuseppe Moscati”
Bisogna esserci in questo letto, avvolti e stravolti dal contatto con lenzuola infeltrite, coperte sempre più corte e indifferenza che sa di pulito. Bisogna esserci per poggiare la testa, pesante gabbia di pensieri inquieti, su cuscini sempre più scomodi e sottili. Bisogna esserci per sentire la pelle tirare, le braccia agonizzare perché bucate, senza sosta, da aghi avidi di sangue, dove le vene, sconvolte e inondate dalle flebo, non hanno alcuna tregua… se non quella naturale della rottura. Bisogna esserci in questo mondo disinfettato e asettico, dove l’odore di malattia e sofferenza depone l’anima in preghiera perenne anche colui che non crede in niente. Mondo che sembra sincronicamente perfetto, quasi automatico. La pillola all’ora giusta, l’infermiera che controlla la flebo, le donne delle pulizie, la colazione, il pranzo e la cena, i dottori che fanno il giro dei letti. Momenti, gesti, azioni, routine. Tempo che passa laconico, ogni giorno che sembra uguale a ieri con una sola eccezione: lo scambio dei letti. Pazienti dimessi e pazienti che entrano. Chi si riveste e torna a casa, chi non può farlo perché destinato a scendere nel silenzio della camera mortuaria. Chi passa in quelle stanze, da visitatore, non sa cosa vuol dire essere completamente nudo. L’essere umano non ha più un privato da contenere negli argini del fisico, è spogliato dal pudore, indifeso, una roccaforte con le entrate aperte alla folla. Scoperto alle palpazioni e alle indagini dell’uomo, delle macchine.
Anche il corpo non è più mio ma in balia degli eventi, sottomesso a gesti meccanici, robotici, in quest’azienda ospedaliera dove il nome ha spersonalizzato il concetto, paradossalmente romantico, della casa del sollievo, dell’accoglienza dei malati, del dolore che viene curato non solo con le medicine. L’etimologia sovvertita e con essa la gestione “amministrativa” del paziente che diventa un numero di protocollo, una cartella clinica traboccante di dati, quasi sempre intellegibili ai più. Ho sentito qualcuno che diceva: “la medicina non è una filosofia, non è fatta per i deboli di cuore, ma è una scienza che si fonda su strumenti, macchine” … e quando una macchina referta un responso di terrore da quello puoi essere completamente risucchiato. Sento pronunciare parole di nera ingiustizia a quell’anima che soffre nel letto accanto al mio. Riconosco la voce ed il ruolo da Primario. Incatenata dalla paura sprofondo nel letto, la prossima sono io. Aspetto di sentire ma… resto sospesa, in attesa di una diagnosi. Quello che più umilia il malato è rimanere nudo e indifeso davanti al mondo. Chi ha firmato una cambiale in bianco, alla Banca della vita, non saprà quando e come sarà messa all’incasso, eppure vuole essere sostenuto prima col cuore, poi con la scienza. Vorrei fissare la parete che tanti occhi hanno fissato, nel reparto dove la gioia ha poco o mai avuto ingresso, ma le mie pupille sono disconnesse, senza più collegamenti col cervello. Chi è malato è sottomesso al destino ed anche alla fortuna di scovare, tra tanto agonismo clinico, un uomo, un dottore che si svesta di quel camice e lo accarezzi. Alla dolcezza di una parola di conforto equivale una defibrillazione emotiva.
Non so bene come terminare questa lettera, scritta con l’inchiostro indelebile della sofferenza. Non ho macchiato fogli, non ho comprato la busta, non ho il francobollo, non avrò chi me la potrà imbucare ma, se ora provo a chiudere questo contatto col dolore, a viaggiare nel tempo e nello spazio, riesco a guardarti, con quello sguardo che avevo un tempo. E, improvvisamente, sei qui, davanti al mio letto. Posso sentire, chiara, cristallina, energizzante, la potenza delle tue parole che rompono questo silenzio che mi sovrasta e devasta. Parole che non sono echi d’aria, enunciazione sciatta dei principi di una professione, ma rappresentano… ancora oggi, l’impalcatura del tuo essere stato prima uomo e poi medico: “Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardore dell’amore, la carità. Il medico si trova in una posizione di privilegio, perché si trova tanto spesso a cospetto di anime che, malgrado i loro passati errori, stanno per capitolare. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo.” Poi l’immagine di San Giuseppe Moscati si dilegua, ogni cosa intorno a me riprende la forma che aveva, ossia nessuna. Il colore resta attualizzato al nero. Qualcuno bussa alla porta, una voce, un medico nuovo… si presenta prendendomi la mano, ne carezza il dorso, poi mi dice: “Mi chiamo S. dimmi come posso aiutarti…”. Ora lo so, mi hai ascoltata. Tu sei ancora qui, accanto a lui… e vicino a me.
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