Raffa e Xana
“Com’è bello far l’amore da Trieste in giù. L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu. E se ti lascia lo sai che si fa? Trovi un altro più bello, che problemi non ha…” . Quando la voce di Raffaella Carrà è scesa in campo a smuovere i muscoli e le idee contratte dei giocatori, un venticello, poco più che un soffio, ha fatto ondeggiare il tappeto erboso. Perfetto, quasi immacolato, per sopportare il peso della sfida eppure in movimento, come spinto da due minuscole curve marine, fluttuanti. Se quelle note hanno saputo scaldare il cuore degli spettatori, emozionando entrambe le tifoserie, qualche magia deve essere successa anche ai calciatori che, nel limbo dell’incertezza e dell’adrenalina, che iniziava a colare col sudore, hanno stranamente liberato dei serafici sorrisi, quasi all’unisono. Come se si fossero accordati per un rituale d’inconsapevole fratellanza. Con gli occhi lucidi e i riflessi dei compagni, nell’iride accesa dall’agonismo, dei rivali schierati in campo, come soldati pronti a dare battaglia, hanno atteso il fischio d’inizio magari percorrendo di corsa, nei ricordi, tutta la strada che avevano fanno sino a quel punto. E se negli inni nazionali hanno riversato aspirazioni e paure, ansia a trepidazione, col cuore a mille nel giro della vita, ancora l’eco di quella canzone messa su per il riscaldamento faceva breccia nei loro animi. “Tutti dicono che l’amore va a braccetto con la follia, ma per una che è già matta tutto questo che vuoi che sia. Tante volte l’incoscienza è la strada della virtù, litigare, litigare per amarsi sempre di più. Ma girando la mia terra io mi sono convinta che non c’è odio non c’è guerra quando a letto l’amore c’è” . Sarà stato per questo che, alla fine della contesa, delle corse, delle traverse, dei gol mancati, dei passaggi sbagliati, delle urla, degli scontri in area, dei dribbling riusciti e dei gol realizzati, quello che si è visto sul campo, orami esausto di una partita oltremodo dilatata, è stato un “messaggio d’amore” . Non c’era una squadra avversaria da umiliare. I vincitori abbracciavano gli sconfitti riconoscendogli l’onore delle armi calcistiche: aver giocato allo zenit dell’agonismo ed essersi piegati “solo” alla roulette dei rigori. Così quando la gioia dei giocatori italiani, consapevoli di aver sofferto la prestanza dell’avversario, è esplosa in una grande coro, è nel richiamo emozionale di un uomo assente eppur presente che si è percepito il cuore, autentico e sincero, dei nostri ragazzi. Insigne che indossa la maglia di Spinazzola e tutti i compagni di squadra, insieme a Mancini e tutto lo staff della Nazionale, che lo chiamano a gran voce, in coro, con risonanza e boati che si fanno sentire fin dove lui si trova. Un modo per dire: “Se siamo qui è anche merito tuo…” . E quell’inno a non mollare, nella difficoltà del momento, Spinazzola lo controlla di petto, come un pallone, poi lo crossa dalla sua stanza fino a Londra, esultando come se fosse in campo con loro. Nell’altra parte del campo, invece, nell’ombra dello stadio, dove la cupezza della delusione per la sconfitta viene comunque vissuta con estrema dignità, le parole pronunciate da Luis Enrique, ai microfoni di un intervistatore, danno il senso di cosa deve essere un uomo: “Grande calcio, ora tiferò Italia…” . Se per un attimo proviamo a metterci nei panni (strettissimi) non dell’allenatore ma dell’uomo, sfiancato nell’esistenza dalla sofferenza (atroce) per la morte di una figlia, andata via nel fiore acerbo della vita, non possiamo non riconoscergli una grande qualità, quella di essere “un hombre vertical” . Un uomo di cuore e sostanza che fa dell’etica calcistica la virtù morale del suo agire e che, nella curva tragica del destino, ha trovato il modo di rialzarsi, camminare, svoltare e rivolgere gli occhi di nuovo al sole, che sorge ancora, nonostante il buio del passato. E allora, ecco svelato l’arcano movimento dell’erba di Wembley. C’erano altre due spettatrici a guardare la partita, ieri sera: la nostra Raffa nazionale e Xana , la “estrellita” di Luis che, a nove anni, si arrese ad un ingiusto e innaturale male. C’è chi giura (ossia io) di averle “viste” prima tenersi per mano e poi, alla fine dell’incontro, andare in due opposte direzioni. La prima, nel fulcro della sua giovinezza, meravigliosamente fasciata in un abito bianco, che lasciava scoperto soltanto l’ombelico, che correva ad abbracciare la gioia irrefrenabile dei nostri ragazzi, per fare “rumore” . La seconda, nella dolcezza dei suoi perduti natali, che si muoveva veloce per giungere sino alle braccia del suo “papito” e stringerlo in silenzio, consolarlo. Potrebbe essere, questa, la telecronaca “immaginaria” di una partita che non ho potuto vedere ma che ho seguito con la fantasia o forse con la speranza che sia, davvero, andata così. Che poi la bellezza di sognare ad occhi aperti è tutta qui. Non trovare necessariamente una risposta ai perché e, anche nella sconfitta, riuscire a sentirsi in pace con se stessi. Ed io, probabilmente, desideravo che alla gioia della vittoria dell’Italia, sofferta, sentita, vissuta al cardiopalmo, si accompagnasse anche la dolcezza della mano di una bambina che carezzasse il volto contratto del suo papà sconfitto dalla “fortuna” ma non perdente.
I commenti sono chiusi.