Francesco Petrarca, il Poeta dell’Amore

Francesco Petrarca, nel suo tempo (1304-1374), appare come un anello di congiunzione tra i due grandi Dante e Boccaccio, mediando mirabilmente tra la misticità del primo e la concretezza del secondo, tanto da poter essere definito l’ultimo dei grandi spiriti del passato ed il primo dei moderni.

Il suo spirito irrequieto si dibatte, così, di continuo tra il sogno e la realtà, tra aspirazioni a volte anche sensuali e mondane, col desiderio di pace e felicità ed il richiamo ai problemi dell’anima ed ai doveri morali e religiosi.

Di qui i suoi scrupoli, l’insoddisfazione di sé, i suoi problemi del male e del dolore.

Ne risente anche la sua concezione politica, che gli fa sognare, come Cola di Rienzo da lui conosciuto, l’indipendenza ed il riscatto dell’Italia attraverso la tradizione della Roma classica e repubblicana, per così metter pace alle discordie, e lo fa gioire della notizia (1367) del ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma, da lui vagheggiato col sostegno di S. Caterina.

Andando, con l’immaginazione, indietro nel tempo per vari secoli, potremmo scorgere Dante, Petrarca e Boccaccio nel loro agire ed operare da vivi, nella vita comune della loro età e non ancora immortalati nelle figure astratte che di loro conosciamo con lo studio della nostra letteratura.

E così apprendiamo che il Petrarca, durante la sua vita piena di esperienze, viaggi, amori, da giovanissimo (nel 1310), potrebbe aver visto Dante, in un suo breve soggiorno a Pisa.

Di certo conobbe, invece, a Firenze, in occasione del Giubileo del 1350, il Boccaccio, di cui fu molto amico ed anche ospite; dal quale ebbe in dono una copia delle Divina Commedia, da lui stesso trascritta, nonché l’esortazione a dedicarsi allo studio del greco e dei poemi omerici.

Lo studio era stato, infatti, la sua passione, specialmente per i classici antichi, mentre suo padre desiderava fare di lui un giurista, tanto che un giorno, adirato, gli gettò i libri di letteratura sul fuoco; ma, poi, commosso dal suo dolore, gli preservò un libro di Cicerone ed uno di Virgilio.

L’amicizia di questi due grandi poeti si perpetuò anche nel testamento in cui il Petrarca lasciò affettuosamente in legato al Boccaccio cinquanta fiorini d’oro, perché si provvedesse di una veste da indossare per lo studio nelle freddi notte d’inverno.

Infine, coerentemente col suo amore per lo studio, colto da recidiva sincope nella notte del luglio 1374, quel grande fu trovato morto dai suoi familiari, nella sua cameretta, col capo appoggiato proprio su un libro.

Ma su tutti i suoi tormentati sentimenti campeggia, quale spinta costante della vita del Petrarca, la sua esaltata ammirazione per Laura De Noves, da lui scorta il venerdì Santo del 6 aprile 1327 nella Chiesa di S. Chiara in Avignone, donna che, tuttavia, già da due anni sposata col nobile Ugo De Sade, mai corrispose al suo amore.

Fu questo un amore mezzo virtù e mezzo peccato, a volte elevato a quello celeste di Dante per Beatrice, a volte portato in terra sino a quello, concreto, di Boccaccio per Fiammetta.

Nel continuo contrasto dei suoi stati d’animo, il Poeta decise di abbracciare addirittura lo stato ecclesiastico; ma, mentre suo fratello Gherardo, per effettiva vocazione, divenne certosino, egli si fermò agli ordini minori, mirando ad ottenere benefici ecclesiastici e continuando però nella sua vita di “gentil mondanità”.

Ed una spinta peccaminosa è da lui stesso confessata nel noto sonetto “Passa la nave mia”; nel quale, sotto l’allegoria di una nave in un mare in tempesta, si cela il suo stato d’animo travolto dall’impeto di una forte passione sensuale senza rimedio, governata dal dio dell’amore, ma divenuto, stavolta, il suo nemico che lo induce alla rovina dell’anima.

Il contrasto tra le varie anime del Petrarca, vissuto in un’epoca di transizione tra due culture, emerge anche nelle sue numerose opere, vagheggianti valori di Patria, Chiesa, amicizia, politica.

Ma su tutto prevalse quel sentimento-passione che, a buon diritto, ha fatto di lui il poeta dell’amore.

Infatti le sue rime, poi raccolte in massima parte nel Canzoniere e divise tra quelle in vita e quelle in morte di Madonna Laura, costituiscono la “colonna sonora” della sua sensibilità, più riservata nelle prime e più esplicita nelle seconde.

Su tutte appare prevalente, come poesia che precorre quella naturalistica del Rinascimento, la canzone “Chiare, fresche e dolci acque”, nella quale sono esaltate le bellezze di Laura, ma è al tempo stesso contemplata dal poeta anche la propria morte come riposo eterno nei luoghi dell’Amore, e l’Amore che persiste nella pietà della donna amata, immaginata superstite.

Infatti il Petrarca, in un “fortunato giorno”, ebbe modo di contemplare Laura mentre si bagnava nelle acque del fiume Sorga, in un’atmosfera di vero incanto della natura circostante; alle cui bellezze egli si rivolge nel suo canto, invocando le “dolci acque” di quel fiume che accolsero le “belle membra” della sua donna, il “gentil ramo” che lei scelse a sostegno del suo “bel fianco”, l’ ”erba ed i fiori” ricoperti dalla sua “gonna con l’angelico seno”, l’ ”aere chiaro e sereno” ove Amore aprì il suo cuore con i “begli occhi” di lei.

Ma poi, d’improvviso, in tanto tripudio, il suo canto, considerando vicina la morte di lui, esprime il desiderio del poeta di poter almeno rimaner sepolto proprio in quel luogo incantato; nel quale lui spera che possa un giorno ritornare a cercarlo “la fera bella e mansueta”; che, vistane invece la sepoltura, si commuova al punto da impetrare grazie per lui, asciugandosi il pianto “col bel velo”.

Però, alla fine, il triste pensiero del poeta svanisce nel ricordo, “dolce nella memoria” di lei nel “benedetto giorno”, carezzata da tanti fori che aleggiavano e si posavano ovunque, tanto da creare per lui l’incantesimo di trovarsi in cielo e di sentir dire “qui regna Amore”.

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