La fugacità della vita

(Franco Genzale) Una novità nella nostra programmazione di interventi dedicati alla cultura. Da questo sabato, ogni 14 giorni, la rubrica “Le Parole di Dante” si alternerà con “Umanità”: una serie di riflessioni dello stesso autore, Gabriele Meoli, in qualche senso sempre riconducibili alla vastissima “categoria dello spirito” riassunta nel titolo della nuova sezione.
Desidero ringraziare il Magistrato in pensione, oltre che affettuosissimo Amico Gabriele, per la sua preziosa collaborazione, peraltro offerta a titolo gratuito, che ha arricchito le pagine della nostra testata giornalistica con un contributo di “Pensiero” di altissima valenza pedagogica e, insieme, sociale.

 

– di Gabriele Meoli –

La fugacità della vita è il tormento che ogni essere umano, anche inconsapevolmente, avverte durante tutta la sua esistenza ed al quale reagisce nel suo pensiero.

Quanto più elevata è la sua sensibilità, tanto maggiore è il suo rammarico istintivo per il tempo che inesorabilmente “gli fugge”.

La fede, l’arte, la filosofia, la poesia, la bontà, la intenzionale spensieratezza e tanti altri suoi nobili stati d’animo sono soltanto “farmaci” per attenuare o nascondere quel suo naturale “horrere mortem” che assilla il proprio desiderio di conservazione.

Atropo è la più capricciosa delle tre Parche in quella sua decisione, spesso improvvisa, di tagliarti il filo; ed è in questa prospettiva che l’uomo cerca con ansia un rimedio in cui rifugiarsi.

E dice “perché turbarmi l’anima, o d’oro e d’onor brame/se del mio viver Atropo presso è a troncare lo stame/ e già per me si piega sui remi il nocchier brun/colà donde si niega/che più ritorni alcun”.

Virgilio (Georgiche, 3,28) ci ricorda che il tempo fugge irreparabilmente (“fugit irreparabile tempus”), ed un noto canto goliardico (“gaudeamus igitur”) inneggia a godersi la vita finché siamo giovani.

Orazio (Odi, 1,11,8) raccomanda alla bella Leucònoe di non domandare mai quando finirà la sua vita, poiché è male sapere; e, mentre si parla, il tempo è già in fuga, come se ci odiasse; sì che conviene vivere alla giornata e non porre fiducia nel domani (col celeberrimo verso “carpe diem, quam minimum credula postera”!); e poi constata che a tutti non rimane che una sola notte (“omnes una manet nox”).

Catullo, altresì, sullo sfondo della suggestiva immagine della morte, esorta Lesbia a vivere ed amare, poiché noi dobbiamo dormire una sola eterna notte (“nox est perpetua una dormienda”, carm. 5,56).

Si tramanda, poi, che persino in tempi assai remoti compariva, sulla tomba del re assiro Sardanapalo dedito al lusso ed ai piaceri, l’epigrafe “mangiamo, beviamo, godiamo, dopo la morte non vi è nessun piacere (“edamus, bibamus, gaudeamus, post mortem nulla voluptas”).

Da Seneca (Epist. Ad Lucillum,138,28) già la stessa vecchiaia è considerata una malattia inguaribile (“senectus insanabilis morbus est”) e maggiore la brevità della vita se non dedicata alla cura della propria interiorità spirituale.

Lorenzo dei Medici, il “magnifico”, celebra, nell’ebbrezza del carnevale, il trionfo di Bacco ed Arianna, che “belli e l’un dell’altro ardenti, poiché il tempo fugge e inganna sempre insiem stan contenti”.

Fa sfilare, in bizzarra mascherata, i lieti satirelli, che tendono graditi corteggiamenti alle ninfe di cui sono innamorati; il vecchio e grasso Sileno, che ride e gode pur non reggendosi in piedi, trasportato da un asino; Mida, che inutilmente brama tesori poiché “ciò che tocca oro diventa” laddove è bella soltanto la giovinezza “che si fugge tuttavia”.

E conclude esortando chi voglia ad esser lieto, qualunque cosa sia destino che accada, poiché “di doman non c’è certezza”.

Da sempre ad oggi, forse nulla è cambiato realmente, se, ad onta di ricorrenti difficoltà e tragiche contrarietà, permane quella naturale aspirazione ad una “felicità” che allontani le tristi prospettive di fugacità della vita, con la ricerca, se non proprio del “piacere”, almeno di un semplice “benessere” spirituale o soltanto materiale, fosse pure momentaneo e sicuramente illusorio.

Lo conferma quella sentita necessità di poter godere almeno di una vacanza o di un piccolo diversivo con amici, insomma di qualche istante di spensieratezza che è nel desiderio, spesso inconsapevole, di noi tutti.

Non si spiegherebbe, altrimenti, neppure il fenomeno esorcistico di voler reagire (con canti dal balcone, timide feste, o dicendo “andrà tutto bene”) alla insidia invisibile di una pandemia che invece pretende ogni giorno l’inaccettabile tributo di tante vittime e chissà fino a quando.

Neppure si comprenderebbe la caparbia “movida” di tanti giovani, attuata in un puntuale rito serale, con incontri fatti magari per accontentarsi anche soltanto di una pizza, una birra e di qualche bacio furtivo o no.

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