Saman e le altre…

Una lettera “immaginaria” di Emanuela Sica che di fatto è un commento, opportunamente impietoso, sul “Machismo” e che prende spunto dalla tragica vicenda di Saman.
Il “pezzo” di Emanuela integra e completa, da una angolazione più squisitamente storico-giuridica, l’eccellente riflessione di Clara Spadea che abbiamo pubblicato ieri sotto il titolo “La risposta, per Saman, soffia nel vento…”.

 

– di Emanuela Sica –

Sono nata nel lontano 1925, ho quasi 96 anni, non ho più nessuno dei miei cari a farmi compagnia. Vivo in questa casa di riposo sperando, prima o poi, di raggiungere Anna nel “paese” in cui si trova adesso (il “destino” le ha fatto intraprendere un “viaggio obbligato”). Tuttavia ho ancora la mia mente, le mie idee, quella che sono stata: un avvocato che ha esercitato la professione nei tempi in cui le donne potevano entrare a far parte dei pubblici uffici ma non della magistratura, della politica, dei settori militari. Ma veniamo al punto, al perché sento il bisogno di scrivere questa lettera. Esondanti fiumi d’inchiostro (parole, considerazioni, analisi, puntuali riflessioni ma anche eccezionali stupidaggini, usate a scopo spudoratamente propagandistico) sono stati riversati sulla storia di Saman, un dramma che non è fratello soltanto della vittima ma è figlio di una società intera che vede (ciecamente) nell’espressione di una libertà soggettiva un atto di aggressione ai propri “diritti”. Saman è stata uccisa dai suoi familiari, in maniera del tutto premeditata, volontaria, fredda, perché aveva rifiutato di sposare l’uomo che avevano scelto per lei (non uso la parola “madre” e “padre” perché specificano un rapporto di “affetto” e di “filia” che, in quel caso, non esisteva neppure allo stato larvale). Saman oramai è sotto terra, non sanno ancora dove, e non può essere più salvata. Per questo ogni ulteriore considerazione non riuscirà nel miracolo impossibile di riportarla in vita perché delle “persone” – o forse dovrei dire “bestie” – hanno deciso quale vita doveva vivere e soprattutto come morire. Certo è che i colpevoli andrebbero puniti severamente, in maniera esemplare, così come dovranno esserlo tutti coloro che mettono fine a una vita umana però, vi prego, non vi azzardate a fare paragoni con la nostra “cultura” senza sapere come vivevano, fino a pochi anni fa, le donne qui in Italia, negli anni in cui era pienamente vigente il Codice Roccoche metteva la donna su un piano di netta inferiorità rispetto all’uomo, non offrendole alcuna tutela. Qui non si parla di una FATWA (un semplice “parere religioso” che trova le sue fondamenta nei testi sacri del Corano e nella tradizione profetica dell’Islam) ma di leggi e norme che ancora oggi, nonostante siano state abrogate, sono il terreno fertile per la morale sessista prevalente. Un famoso criminologo inglese sosteneva che “la legislazione di una generazione può divenire la morale della generazione successiva”. Allora non è una novità se, considerate le leggi penali “sessiste” del nostro recente passato, la morale di oggi sia ancora infestata da ampie sacche di pregiudizio e prevaricazione maschilista nelle quali aumenta esponenzialmente la cultura della violenza dell’uomo sulla donna. Pensate che nel richiamato Codice i delitti di adulterio (ex art. 559 c.p.) e quelli di concubinato (ex art.560 c.p.) permettevano allo Stato di arrogarsi il diritto di intervenire con l’arma della pena per regolare le faccende di alcova e lo esercitava in forme ampiamente discriminatorie. La moglie fedifraga era punita anche solo per un singolo episodio di adulterio; il marito, invece, poteva tranquillamente “cornificare” (mi si passi il termine) la moglie purché avesse l’accortezza – ex art. 560 c.p. – “di non tenere la sua concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove”. Un altro ambito in cui la legge penale aggravava, anziché alleviarla, la situazione di vulnerabilità della vittima – DONNA, ovviamente – era quello disciplinato dalle norme sulla violenza allora detta carnale (artt. 519 ss. c.p.). Pensate che fino al 1996 lo stupro era ufficialmente considerato un delitto contro la morale pubblica e il buon costume e non contro la libertà personale e l’autodeterminazione sessuale della donna. Tra queste norme, una di esse suonava addirittura come una crudele beffa imposta alla donna violentata, come sperimentò la siciliana Franca Viola, che disse “NO” a quella doppia violenza stavolta perpetrata dallo Stato. Di che sto parlando? Dell’art. 544 c.p. che prevedeva il c.d. matrimonio riparatore grazie al quale, se il violentatore sposava la sua vittima, il reato veniva cancellato. Le norme sulla violenza carnale conoscevano poi, da parte della nostra giurisprudenza, un’applicazione – o meglio una disapplicazione – particolarmente sconcertante proprio in ambito familiare: se la moglie subiva violenza sessuale da parte del marito, questi – almeno fino al 1976 – veniva condannato solo per delitti minori (percosse, lesioni, o minacce) ma non per stupro (purché si fosse contenuto a compiere atti sessuali secundum naturam). Che dire, poi, dei tanti fatti di ingiuria, percosse e lesioni personali commessi nelle relazioni intra coniugali, ma a lungo coperti dall’ombrello protettivo di uno ius corrigendi riconosciuto, quale causa di giustificazione ex art. 51 c.p., in termini assai generosi dalla nostra giurisprudenza a favore dei mariti nei confronti delle mogli (oltre che a favore dei genitori nei confronti dei figli), fino alle soglie della riforma del diritto di famiglia del 1975. Infine esisteva un istituto giuridico il quale consentiva che le donne venissero ammazzate impunemente per causa d’onore: art. 587“Omicidio e lesione personale a causa d’onore” Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alle stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella (mentre l’omicidio di unUOMO, si badi bene, era punito ex art. 575 con la reclusione non inferiore ad anni ventuno). Nella società Italiana una donna uccisa valeva al massimo 7 anni di carcere, un uomo 21. Mi scuserete, forse mi sono dilungata troppo ma, come donna e come professionista, sono stata testimone, non solo di una tragedia personale (di cui vi dirò più avanti) ma anche dell’evoluzione della legislazione: da quella sul divieto di licenziamento delle donne per matrimonio (del 1963) a quella per l’accesso a una carriera in Magistratura, al corpo di Polizia del 1981 e alle forze armate del 1999; da quella sul divorzio del 1970, alla riforma del diritto di famiglia del 1975; dalla legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (1978) e così via fino all’abolizione del delitto d’onore, del matrimonio riparatore (1981), della legge sulla violenza sessuale (1996)…e potrei proseguire fino ai nostri giorni.

Ora prendo un attimo di fiato, stringo i ricordi nel petto, chiedo agli occhi di farmi scrivere, senza dare modo alle lacrime di impedirmi di elaborare, ancora una volta, il buco che ho nel cuore. Mia figlia ha ricevuto dal marito un biglietto di sola andata per un viaggio ultraterreno. Il suo biglietto è stato obliterato con trenta coltellate. Prima di lei ha ucciso mia nipote, ossia la figlia e poi si è suicidato. L’assassino era un professionista rispettato da tutti, era anche un “italiano doc” come amava etichettarsi. Ebbene, tante altre donne, come mia figlia vengono uccise dai mariti, compagni, fidanzati, amanti, dai padri, dagli zii (come Saman) e per questi esiste una carta di identità c.d. nazionale bensì quella del MACHISMO che non ha bandiere ed è duro a morire. Ma cos’è davvero il machismo? Chi lo sa? Basta fare un esempio e per questo mi rivolgo agli uomini e chiedo: “Da bambini, cadendo dalla bici, vi è mai capitato di piangere e di sentirvi dire “non fare la femminuccia”? Sicuramente sì. Per questo rientrano nel machismo tutti quei comportamenti “esageratamente e stupidamente virili” che considerano la donna inferiore (fisicamente e/o psicologicamente) all’uomo. Se poi, per un attimo, pensiamo alle vecchie favole dove la principessa (impaurita) viene salvata dal cavaliere (senza paura) immediatamente nasce l’equazione automatica donna = debole, uomo = forte, con l’incapacità della prima di salvarsi da sola. Capiamo quindi che è proprio la mentalità machista, assorbita e interiorizzata dal soggetto che la mette in pratica, che lo porta a credere veramente nella sua presunta superiorità, a imporla alla donna in ogni modo possibile… il più delle volte uccidendola. Anna (come Saman) è morta perché voleva essere libera. Voleva separarsi e vivere (finalmente) una vita slegata dalla tossicità di un uomo che, col tempo, aveva iniziato a limitare, sistematicamente, ogni sua mossa, anche un semplice appuntamento dalla parrucchiera diventava una questione di Stato. Un uomo che, inizialmente, la faceva sentire unica, amata e al centro delle attenzioni. Attenzioni diventate poi morbose, ossessive, cicatriziali come le cicatrici che si portava nell’anima. Sembra strano dirlo ma non l’aveva picchiata. Eppure gli schiaffi e le sberle erano parole, omissioni, intenzioni, minacce ma niente di materiale insomma. Era quel tipo di violenza che io chiamo “trasparente”. E allora Saman, come tutte le altre donne uccise, sono il simbolo delle NUOVE PARTIGIANE… ingiustamente trucidate solo perché volevano LIBERARSI dalle catene dell’oppressore machista.

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