Se i nostri giovani superano l’esame e la politica no
Non so a voi, ma a me hanno trasmesso una sensazione gradevolissima le immagini dei “maturandi” sorridenti che sono sfilati al Campo Coni di Avellino per sottoporsi alla somministrazione del vaccino. Sono gli stessi ragazzi dai diciassette ai vent’anni che spesso ci è capitato di criticare, in questi lunghissimi quindici mesi di pandemia, quando li abbiamo colti assembrati per strada, per di più senza mascherina, a sfidare irresponsabilmente il Virus.
È stata una piacevolissima sorpresa poterne contare tanti perché la loro scelta di vaccinarsi è già una grande prova di “maturità”: non me ne vogliano genitori e professori, ma penso e scrivo che questi giovani il loro Esame di Vita, nella condizione di elevato rischio sanitario indotto dal Covid, lo hanno già superato. Anche soltanto per questo meritano tutti di accedere agli studi universitari, o al lavoro, senza dover attendere il verdetto della Scuola.
Tra qualche giorno assisteremo ad altre simili sequenze del film “Giovani” in tempo di pandemia. Da oggi, infatti, sono aperte le adesioni alla campagna vaccinale senza più la cronologia delle fasce di età: dai 12 anni in su, il vaccino a chiunque scelga di farlo. Sicché ora dobbiamo sperare che vi aderisca il più alto numero possibile di “ragazzi”: perché siamo finalmente alla svolta, alla battaglia che deciderà l’esito finale della guerra contro il Virus.
È importante che questo passaggio decisivo sia soprattutto nelle mani dei giovani. Una prova collettiva di maturità potrà farci meglio affrontare la “seconda guerra” che ci toccherà combattere da settembre in avanti: quella dell’emergenza economica e sociale. Raggiungere l’immunità di gregge in tempo utile, stare fuori dal rischio sanitario, significa poter convogliare e concentrare le energie di cui disponiamo sull’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: il quale – è bene che si sappia – è manna dal cielo ma soltanto se ci sarà il concorso di tutti per raccoglierla e destinarla al bene comune con efficienza, efficacia e trasparenza.
Ieri, in occasione della Festa della Repubblica–quest’anno diffusamente più “sentita” che mai (non c’entra niente la pandemia, secondo voi?)–il Presidente Mattarella ha più volte messo l’accento sulla necessità di una “ripartenza efficace e veloce”, di “un nuovo inizio”, come nel Dopoguerra: azioni che sono alla portata degli italiani, e che possono sortire effetti tanto più vicini e positivi quanto maggiore sarà l’afflato unitario. Un concetto che il capo dello Stato ha reso ancora più esplicito nel messaggio inviato martedì ai prefetti, laddove sottolinea che la velocità e la qualità della ricostruzione del Paese, oltre che dalla montagna di soldi del Recovery Fund, “dipendono dal contributo di tutti e dalla complessiva capacità di fare rete delle componenti istituzionali e della società civile”.
Sono parole come macigni, indicazioni peraltro in perfetta sintonia con la bussola fissata nell’azione di governo dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Tuttavia, ciò che allo stato appare ancora molto carente è la condivisione dello “spirito unitario” richiesto dagli eventi, soprattutto da parte delle istituzioni periferiche. La sensazione è che Regioni e Comuni continuino a muoversi – ma sarebbe più adeguato dire “ad agitarsi” – ciascuno per proprio conto; con l’aggravante della perpetuazione di logiche politiche strumentali superate dalla Storia ancor prima che rese inattuali e dannose dal Covid.
Al riguardo, basterebbe guardare a ciò che accade ad Avellino – capoluogo di una provincia al collasso su ogni versante –per rendersi conto che siamo ancora molto lontani dalla presa di coscienza istituzionale invocata dal Presidente Mattarella per essere presenti e utilmente attivi nel processo di ricostruzione.
Sicché corriamo un rischio imperdonabile: mentre i nostri ragazzi – per stare all’immagine della campagna vaccinale – superano la prova di “maturità” in anticipo rispetto agli Esami di Stato; e mentre segnali importanti di impegno propositivo arrivano dal mondo imprenditoriale e culturale, la politica resta indietro, addirittura esercita un ruolo frenante facendo prevalere personalismi e interessi di parte sul bene comune. È un lusso che non possiamo consentirci e non dobbiamo consentire.
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