L’Antropocene affollato

Quando si parla di ere geologiche, in generale ci si riferisce a periodi temporali lunghi decine o centinaia di migliaia di anni. L’era più recente, quella che riguarda la nostra attuale esistenza ha come denominazione: Olocene e ha avuto inizio convenzionalmente circa 12 mila anni fa, dopo l’ultima glaciazione.
Negli ultimi settant’anni, quelli che ci separano dall’ultimo conflitto mondiale, l’accelerazione dell’interazione uomo/ambiente è stata di tale portata da necessitare una nuova classificazione, di questi pochi decenni, col nome di Antropocene (anthropos= uomo; kainos= recente).
L’aumento esponenziale della popolazione mondiale – da due miliardi di persone degli anni cinquanta ai sette miliardi e mezzo attuali – ha visto lo sviluppo di tutta una serie di tecnologie che hanno consentito, almeno fino a questo momento, una discreta sostenibilità; ma sarà sempre così per il futuro?
Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto un articolo, apparso su Nature, qualche tempo fa, dell’autore e divulgatore scientifico Philip Ball.

Bocche da sfamare
Prospettando il futuro, non è chiaro se sia possibile sostenere un pianeta con più di nove miliardi di persone, quanti si prevede saranno nel 2050, senza ulteriori significative innovazioni, soprattutto nella coltivazione e produzione di alimenti e nella gestione delle risorse idriche. Questo facendo salve le condizioni di alterazione degli equilibri ambientali per quanto riguarda clima e fattori inquinanti.
L’incremento maggiore della popolazione, stando alle previsioni, si registrerà in Africa e in buona parte dell’Asia, quindi in paesi che mancano di risorse economiche ed infrastrutturali in grado di farvi fronte.
Non ci sono garanzie del fatto che la produttività agricola vada a crescere in linea con la popolazione. Si prevede anzi che il mutamento climatico – in grado di peggiorare l’erosione dei suoli, la desertificazione e la perdita di biodiversità – causerà una diminuzione della produttività.
A tali cambiamenti vanno a sommarsi le vicissitudini dei mercati nel contesto della globalizzazione. Nel 2008 a Haiti, è già avvenuto che un picco dei prezzi del cibo ha scatenato estese rivolte sociali, poi sfociate nella caduta del governo, e sempre gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità sono stati tra le cause dei sommovimenti della “Primavera araba” del 2011.
Le prospettive non sono migliori per quanto concerne l’acqua. Al momento circa settecentocinquanta milioni di persone vivono in condizioni di scarsità idrica e si prevede che tra qualche decennio questo numero, potrebbe salire a tre miliardi. E questo non riguarda solo i paesi sottosviluppati. In numerose regioni aride, dal Midwest americano alle pianure della Cina settentrionale, il prelievo dai bacini di acqua dolce già procede ad un ritmo molto più sostenuto di quello della naturale ricostituzione delle falde, che tendono così ad esaurirsi.
Per i paesi occidentali, maggiormente sviluppati, la combinazione tra longevità in aumento e tassi di crescita in diminuzione fa si che, globalmente, la popolazione stia diventando in media sempre più vecchia. Sempre nel 2050, si prevede che un terzo degli abitanti dei paesi sviluppati avrà più di sessant’anni cosa che, oltre al resto, sottoporrà a grandi pressioni l’ambito dell’assistenza sanitaria e altererà la quota proporzionale della popolazione attiva.

Dobbiamo anche interrogarci su dove saremo

A livello mondiale si prevede, per la maggior parte del genere umano la transizione verso il futuro avverrà in un contesto urbano.
In una relazione delle Nazioni Unite del 2007, si annunciava che più della metà degli abitanti del pianeta vivevano nelle città.
Esistono oggi numerose megalopoli con popolazioni che superano i dieci milioni, molte delle quali si trovano in nazioni emergenti di Asia, Africa e Sud America: Mumbai, Lagos, San Paolo e Manila ne sono degli esempi.
Grandi quantità di persone provenienti da zone rurali sbarcano nelle metropoli con la speranza di una vita migliore, senza poi necessariamente trovarla. Molte città non sono in grado di assorbire queste masse di nuovi arrivi: ad esempio, centocinquanta milioni di abitanti delle metropoli vivono attualmente in carenza d’acqua.
Un conto è che una città cresca, tutt’altro che diventi prospera, come stanno a dimostrare le favelas di Rio de Janeiro e San Paolo.
Nei prossimi vent’anni ci si aspetta che la Cina costruisca due o trecento città interamente nuove, molte con più di un milione di abitanti. Del resto, l’equivalente di una città di circa un milione di abitanti si aggiunge al pianeta ogni settimana.
Ma quale aspetto avrà una città del futuro ? Un’immagine avveniristica, tutta vetro e acciaio inframezzati dal verde, può essere molto seducente, però anche del tutto fuorviante, perché non esiste un futuro unico per la città. Le città a prescindere dalle dimensioni e dalle caratteristiche specifiche, dipendono da economie di scala: più sono grandi e meno richiedono, pro capite, in termini di infrastrutture e di utilizzo energetico, più diventano motori di innovazione. Ma sulle grandi scale tutto cresce rapidamente nel bene e nel male: città più popolose hanno tassi più elevati di criminalità, di furti e di malattie infettive. Sembra che non si possano avere i vantaggi della città senza i suoi rovesci della medaglia.
Il trend migratorio – e lo conosciamo benissimo anche noi con lo sbarco degli extracomunitari sulle nostre coste – rientra in un esodo di assai maggiore entità che coinvolge tutto il pianeta.
Alla luce di ciò che sta accadendo in Europa e negli Stati Uniti non vi sono dubbi che migrazione e immigrazione saranno nei prossimi anni i temi politici dominanti.
Le Nazioni Unite stimano che oggi oltre duecento milioni di persone siano migrate dal loro paese d’origine a un altro paese, e circa settecentoquaranta milioni di persone si sono già spostate all’interno del loro paese.
Nei paesi a basso reddito, la maggior parte delle persone si trasferisce per ragioni economiche, in cerca di migliori opportunità lavorative, salari più alti, o per diversificare i propri mezzi di sussistenza, soprattutto laddove l’agricoltura diventa insufficiente come forma di sostentamento. Alcuni lo fanno per sottrarsi a persecuzioni politiche o culturali, o per sfuggire alle guerre, come in Siria. Alcuni vengono forzatamente ricollocati come avviene per la costruzione delle dighe cinesi.
Il cambiamento climatico farà inevitabilmente aumentare le migrazioni negli anni e nei decenni a venire a causa di disastri ambientali , come le inondazioni, la perdita di fertilità dei suoli e, la già citata, carenza di risorse idriche.

Spostamenti di popolazione tra migrazione e dislocazione

Nello Zimbabwe, all’inizio del millennio, la siccità delle aree rurali, sommata alla crisi economica e politica, ha spinto qualcosa come 1,5-2 milioni di persone a cercare rifugio in Sudafrica, una nazione spesso ostile verso di loro. Per giunta, gli spostamenti indotti dal cambiamento climatico possono rendere confusa la distinzione comunemente operata a livello politico e legale fra “migrazione” e “dislocazione”. La prima è considerata una scelta, la seconda una necessità imposta.
Non sempre è chiaro quando si può ritenere che le condizioni locali siano deteriorate al punto da rendere la migrazione involontaria anziché volontaria.
Un giorno si dovrà spigare alle popolazioni della repubblica oceanica di Kiribati, che stanno per vedere i loro atolli abitati – sommersi dalle acque a causa dell’innalzamento del livello del mare – come si concili tutto questo con il diritto internazionale all’autodeterminazione.

Tecnologia dell’identità
Tutti questi cambiamenti potrebbero sembrare qualcosa di totalmente diverso rispetto alla vita che si svolge, poniamo, fra le popolazioni rurali africane o fra i nomadi della Mongolia, eccetto forse per un aspetto: grazie alle reti telefoniche, anche loro sono connessi.
Nel mondo due individui su tre posseggono un telefono cellulare, anche nei paesi meno sviluppati dell’Africa subsahariana. Alla fine di questo decennio si prevede che i tre quarti del mondo avranno un telefono cellulare. Ma per un contadino keniota o per un nomade mongolo le conseguenze dell’accesso alla telefonia mobile sono molto diverse rispetto a ciò che questa opportunità rappresenta per un agente di borsa londinese.
Un mondo sempre più “info-connesso” è soltanto un aspetto di maggiore interdipendenza che a un tempo condiziona e subisce il condizionamento di fattori come scambi commerciali, finanza, viaggi, malattie, censura, privacy e molto altro. In altre parole interconnessione non significa inclusione. Al contrario può creare una balcanizzazione di punti di vista che imbarbariscono il discorso politico e alimentano o rafforzano le versioni più estremiste. Le tecnologie dell’informazione possono anche amplificare le disuguaglianze nel mondo degli affari e del commercio, delle arti, delle tecnologie applicate; nel commercio si sa: chi vince prende tutto. L’automazione trasformerà – ammesso che non l’abbia già fatto – il mercato del lavoro e, come la storia chiaramente ci insegna, coloro che non partecipano ai processi produttivi della società, anziché godere di più tempo libero, si ritrovano deprivati del potere economico. La mobilità sociale, con la distinzione urbano/rurale o alto/basso livello di scolarità potrebbe portare, alla luce di queste condizioni, ad una crescente marginalizzazione con rischi di segregazione e di estremismo. D’altro canto, l’iperconnettività può anche produrre o rafforzale l’identità di gruppi in direzioni positive, offrendo nuove opportunità alla costruzione comunitaria. Le nostre esistenze e le nostre identità sempre più connesse saranno un bene o un male? Entrambe le cose e sempre di più.

Politica e religione

Il politologo statunitense Francis Fukuyama all’indomani della caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica in un suo saggio, del 1992: “La fine della storia e dell’ultimo uomo”, ipotizzò che la democrazia liberale dovesse essere il logico approdo finale di ogni nazione sviluppata e divenne subito il bersaglio favorito della futurologia politica. Oggi le ragioni per mettere in dubbio la giubilante previsione di Fukuyama sono ancora più numerose. Il concetto di stabilità democratica resta un concetto quanto mai sfuggente in vaste aree del mondo (e certo non si genera per magia dal rovesciamento di un regime o di una dittatura) ma non si può nemmeno dare per scontato, che una volta raggiunta, sia destinata a perdurare. Il populismo demagogico – e ne abbiamo avuta esperienza in Europa e negli Stati Uniti – corre il rischio di trasformare le democrazie liberali in regimi dell’uomo forte; del genere più spesso associato a Russia, Cina e Sud-Est asiatico, regimi basati su coercizione, corruzione e collusione. Si discute seriamente sul fatto che i termini “liberale” e “democratico” possano rimanere indefinitamente congiunti. In sostanza i politologi occidentali non sono più così sicuri di conoscere a fondo e di avere sotto controllo la miglior forma di governo esistente, meno che mai hanno idea di come poterla promuovere altrove.
L’unica cosa che si può affermare con sicurezza è che dovremmo smettere di considerare la politica come una sorta di reazione chimica che frizza per un po’ e infine si assesta in un equilibrio statico, immutabile. E’ un processo “discontinuo” che avviene per gradi ma con improvvise scosse sismiche.
Fra i cambiamenti che potremmo prevedere ci sono quelli concernenti lo status della religione. Le “quattro grandi” (islam, cristianesimo, buddismo e induismo) sembrano eclissare sempre più le altre. L’ateismo professato dal 16% circa della popolazione mondiale, e con percentuali molto più alte in Europa occidentale, si diffonde più lentamente delle maggiori fedi religiose (ad eccezione del buddismo, che attualmente è in declino).
A crescere con la massima velocità è la quota globale dei mussulmani e si aspetta che per il 2050 arriverà ad uguagliare quella dei cristiani, intorno al 30 per cento. Il credo religioso continuerà a plasmare le esistenze in profondità, nel bene o nel male. La storia ci indica chiaramente che la religione non deve per forza essere anti-intellettuale, anti-scientifica, anti-democratica, anti-umanistica. Ma ci mostra anche che può esserlo.

Anche la fisica non è un’opinione
Concludendo, quello che ci serve è dunque un quadro di riferimento della sostenibilità. Il termine è spesso abusato, ma non sempre vi fanno seguito le riflessioni più adeguate. Alcuni economisti tacciano di allarmismo i moniti su un andamento inaudito della popolazione, ritenendo che l’ingegnosità e le innovazioni umane ci sosterranno come hanno sempre fatto. Altri affermano che l’imperativo economico verso una crescita senza limiti, guidata da forze di mercato che relegano ai margini questioni indesiderabili come l’inquinamento, sia illusorio e impossibile sul lungo termine. Entrambi i fronti di dibattito presentano schiere di dati, o quantomeno argomentazioni, che si confanno alla propria visione, ma ciò che tende a passare inosservato è il fatto che la scienza possiede già un quadro di riferimento – la termodinamica – che pone alle varie opzioni dei vincoli insuperabile. Per dirla in parole semplici, non ci sono pasti gratis. Le società sono sistemi complessi, ma pur sempre uguali a tutti gli altri: reti di interazioni che richiedono energia, che combattono il decadimento entropico, adattive ma anche soggette a molte fragilità.
Creare una vera scienza della sostenibilità è molto probabilmente l’obiettivo più importante per l’attuale secolo; senza di essa, ben poco importa. La nostra presenza nell’universo non è affatto qualcosa di ineluttabile.
Per usare le parole dello scrittore americano Richard Powers: “Le persone vogliono tutto. È questo il problema”.

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