Un trolley zeppo di sguardi
La prima cosa che dovrebbe chiedersi un esperto al termine di un corso di formazione è: ‘Che cosa mi porto a casa oggi da questa esperienza?’ E parallelamente è la stessa domanda da porre ai corsisti in sede di autovalutazione, per la verifica finale degli apprendimenti. È un interrogativo semplice, diretto, finanche pratico, che sintetizza tutto il percorso compiuto in un’ottica solo apparentemente utilitaristica. Certo, le possibili risposte traggono origine da impressioni personali, o meglio, ‘interpretazioni’ dell’esperienza compiuta. E qui risuona la celebre frase di Nietzsche: Non esistono fatti, ma interpretazioni; un enunciato che potrebbe aprire una deriva relativistica se non presupponesse il confronto cooperativo dei punti di vista individuali, suggerito dall’ermeneutica contemporanea. Una posizione che dovrebbe far riflettere legioni e legioni di politici, giornalisti e opinionisti dei giorni nostri, ma anche improvvisati oratori da Bar Sport che – disputando senza dialogare – si accalorano per affermare a tutti i costi la loro ‘verità’, ritenuta assoluta e al di sopra di ogni ipotetico, superfluo confronto.
L’immagine che in genere porto a casa dopo i miei laboratori di filosofia dialogica, sia svolti in presenza che a distanza, è ineluttabilmente quella della visione d’insieme degli sguardi degli studenti, con alcune zoomate sugli occhi dei ragazzi che sono intervenuti più spesso o di quelli le cui domande rivelavano l’esistenza di bisogni più intimi, spesso ancora inconsapevoli. È il contenuto della mia valigia di lavoro, il trolley in cui restano imprigionati giovani volti protesi alla ricerca di risposte che tardano a venire: sguardi intensi e talvolta ironici, voci sovrapposte nell’incalzare degli interrogativi che irrompono quasi sempre verso la fine dell’ora, quando i ragazzi hanno preso gusto alla discussione e non vorrebbero smettere. Ma la campanella ci sorprende tutti, squillando in maniera perentoria e lascia nella mente –inespressi – molti ragionamenti iniziati e non conclusi, che finiranno per ronzare nella testa ancora a lungo, provocando ulteriori solitarie riflessioni.
In un webinar di qualche giorno fa, mi ha colpito in particolare la domanda rivoltami da uno studente del quinto anno dell’Istituto Tecnico Tecnologico ‘Guido Dorso’ di Avellino, nella cui classe svolgo già da alcuni anni un percorso di riflessione filosofica sulla cittadinanza, dedicato quest’anno alla prevenzione e al contrasto del bullismo e del cyberbullismo nell’ambito di un Service nazionale dei Lions, di cui sono responsabile sul territorio. Anche se la filosofia non fa parte del piano di studi dell’istruzione tecnica e professionale, da qualche anno stiamo sperimentando con successo un itinerario di laboratori dialogici di Filosofia civile proprio in questo Istituto. Esperienza che nasce – se volete – da un’avanguardia filosofica originata dalle mie mire velleitarie e volontaristiche, ma che in questo ultimo anno scolastico sta ricevendo attenzione e conferma scientifica da parte del Gruppo di ricerca AION – Filosofia e Didattica (Università di Bologna), dall’Associazione Filò – Il filo del pensiero e dall’Associazione AMICA SOFIA di cui sono coordinatrice regionale per la Campania. Ma torniamo alla domanda dello studente, espressa col tono di un giovane uomo che si interroga sul proprio futuro attraverso un’esperienza appena vissuta: “Che cosa sarebbe stato di noi e del nostro laboratorio, se il lavoro che stavamo facendo non fosse stato interrotto sul più bello dalla pandemia? Che altro potevamo ancora fare e non abbiamo fatto?” I suoi occhi bucavano lo schermo del mio PC durante la videoconferenza, per raggiungermi intatti nella loro richiesta di chiarimento o – per meglio dire – di aiuto.
Confesso di aver avuto un momento di incertezza, se non proprio di panico, perché ho compreso che si trattava di una domanda di senso, una di quelle domande che tecnicamente si definiscono come ‘filosoficamente rilevanti’. In essa c’erano il tempo, la durata (e io pensavo a Bergson), l’interruzione, la nostalgia di una relazione dialogica comunitaria che – protraendosi – avrebbe certamente cambiato in meglio le nostre vite. Quindi la domanda interpellava anche me: che cosa avrei imparato, che ne sarebbe stato di me se avessi potuto continuare ancora per un po’ ad incrociare quegli sguardi limpidi ed indagatori degli studenti per l’intera durata del percorso programmato? In quei brevi attimi di riflessione potevo quasi sentire il respiro sospeso del ragazzo in attesa di un mio riscontro, che doveva apparirgli quasi un oracolo. Avvertivo con ciò tutta la responsabilità di me adulta nei confronti dell’intera classe, perché tutti gli studenti sembravano assorti nello stesso pensiero. Forse si erano accorti soltanto allora di aver portato a lungo dentro di loro la medesima, inquietante domanda senza riuscire a formularla per primi. Tuttavia, due elementi mi avevano piacevolmente colpito in questa richiesta: il fatto che lo studente non si preoccupasse solo sul piano strettamente personale, ma si facesse carico della sorte di tutto il gruppo; cosa che dimostrava la sua piena consapevolezza di appartenere ad una comunità di ricerca in cui domande, obiettivi, strategie cognitive e cooperative erano pienamente condivise. Il secondo elemento – forse ancor più rilevante – era l’aspettativa del nuovo: il senso di una possibilità offerta, intravista e vissuta per un tempo che gli era parso troppo breve, per essere poi bruscamente negata (per sempre?) visto l’approssimarsi della fine dell’anno e degli imminenti impegni dell’esame di Stato. Era evidente dal tono della voce e dall’intensità dello sguardo che questo pensiero doveva averlo lasciato per mesi interi nell’attesa indeterminata di qualcosa di cui sentiva oscuramente l’esigenza, ma che avvertiva come incompiuta per sé e per i compagni; quasi un’ingiustizia, un furto di vita civile perpetrato ai danni della creatività culturale che andava scoprendo in sé e negli altri attraverso il confronto dialogico. Sì, proprio quell’interrogarsi incalzante alla ricerca di soluzioni condivise, che aveva scoperto frequentando i laboratori, ora gli mancava.
Il senso di spaesamento che questo interrogativo mi ha trasmesso per empatia mi ha lasciato un attimo perplessa, trascinandomi fuori dalla neutralità della mia comfort zone. Avrei voluto poter rispondere che l’esperimento del dialogo filosofico sarebbe comunque continuato, che le nostre menti avrebbero potuto proseguire a tempo indeterminato nel loro percorso cooperativo alla scoperta di nuovi paradigmi di conoscenza e creatività, ma sentivo che lo avrei ingannato. Presto la vita, con le sue preoccupazioni quotidiane e i nuovi impegni universitari o di lavoro si sarebbero impossessati di lui – di loro – sottraendo tempo a nuove occasioni di incontro comunitario e laboratoriale. Così ho deciso di rispondere in tutta sincerità che l’interruzione che ha perturbato il nostro itinerario formativo ci ha inevitabilmente cambiato, introducendo in noi – con il sentimento del limite delle cose umane – un forte elemento di frattura col passato. Niente è stato e sarà più come prima, ma questo strappo ci ha insegnato la resilienza: qualcosa a cui non avremmo mai pensato se non ci fossimo stati costretti dalle circostanze. Qualcosa che sicuramente ci servirà ancora nella vita. Certo, avrei voluto avere il tempo di dialogare ancora a lungo con loro, portare avanti insieme al professore di italiano (peraltro laureato in filosofia) questa esperienza innovativa di riflessione filosofica in un istituto tecnico: la prima esperienza in Italia, realizzata proprio qui ad Avellino e destinata a fare da apripista ad una futura rete nazionale di scuole. Niente altro che un sogno didattico, un’utopia pedagogica che si avvera. A proposito, pare che i pedagogisti siano alla riscossa ora che tutti (o quasi) hanno capito l’importanza della formazione come Bildung, come autocostruzione del Sé e del Noi.
Non sarà che i pedagogisti, da sempre snobbati dai filosofi, vengono ora chiamati al capezzale di una filosofia paludata ed accademica, che rischia di soffocare – stretta nei suoi sacri paramenti teoretici – se non sa perdersi nello sguardo di un ragazzo avido di vita; se non sa o non vuole rispondere alle sue domande? Mi conforta pensare che il ‘filo’ del dialogo con gli studenti dell’ITT ‘Dorso’ di Avellino, e con quelli di tante altre scuole coinvolte nei nostri progetti, si sia interrotto solo apparentemente, altrimenti non saremmo ancora qui a parlarne. D’altronde, la nostalgia di un incontro interrotto a volte può essere più produttiva del suo stesso protrarsi. Intanto (e non è poco) abbiamo imparato che la resilienza – che prima ci era pressoché sconosciuta – è entrata a pieno diritto a far parte del Piano di Ripresa formulato dai politici italiani ed europei. Pensate: il Piano di Ripresa e Resilienza sa di ginestra leopardiana – il fiore del deserto – quella che mentre tutto intorno una ruina involve siede come fior gentile e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto consola. E forse sarà questa la via obbligata che condurrà generazioni distanti per età e cultura a sperimentare in prima persona il ruolo che sentimenti tardoromantici come il rimpianto e la nostalgia – incautamente ritenuti superati – possono ancora svolgere nella nostra vita di tutti i giorni, potenziando gli affetti e le capacità di ciascuno in vista del bene comune. You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one.
Voglio lasciarvi ancora con una domanda per me inquietante: fino a che punto ci prendiamo cura veramente e con serietà, al di là degli altisonanti proclami, delle nuove generazioni? Next Generation… We care?
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