Tu chiamale – se vuoi – emozioni

– di Mirella Napodano –

Non sono mai riuscita a leggere, studiare o fare qualunque altra cosa ascoltando musica. Appena sento i primi accordi di una canzone, la lieve melodia di un pianoforte o una frase musicale cantata dal violino non posso pensare ad altro: la musica invade la mia mente e la occupa per intero, fino a quando il brano non si esaurisce e anche oltre la sua durata. Accade così che i miei pensieri finiscono col perdere il codice verbale di cui usufruiscono normalmente, per trasformarsi in pentagrammi. Pensare in musica; questo sì, mi riesce facile, normale, automatico. Invece dei pensieri, mi si prospettano involontariamente frasi musicali o interi brani delle sinfonie e arie dalle opere liriche più amate, cui affido spesso la soluzione dei miei problemi contingenti o almeno la speranza di un momentaneo sollievo. Sono fermamente convinta – per esperienza diretta – che esista un pensiero musicale e da diversi anni, in alcune mie ricerche (Logos e Melos come linguaggi della mente), sto cercando di dimostrare che abbia una valenza filosofica anche in assenza del codice verbale. Convinzione questa che ritrovo espressa in Giovanni Allevi (musicista laureato in filosofia) e nel pensiero del grande maestro argentino-israeliano Daniel Barenboim, direttore musicale dell’Opera di Stato di Berlino. Ma pochi sanno forse che Giuseppe Mazzini, oltre ad essere un grande patriota, fu anche un virtuoso, geniale chitarrista e che raccolse alcune tra le sue riflessioni in merito al pensiero musicale in un libro intitolato (manco a dirlo!) ‘Filosofia della musica’, in cui tra l’altro si legge:
La musica è un’armonia del creato, un’eco del mondo invisibile, una nota dell’accordo divino che l’intero universo è chiamato ad esprimere un giorno… È l’arte divina che nei simboli mitologici s’immedesima col primo pensiero del nascente incivilimento; l’arte che era nella Grecia tenuta come lingua universale della nazione e veicolo sacro della storia, della filosofia, delle leggi e dell’educazione morale.
Melodia e armonia, elementi generatori della musica, rappresentano rispettivamente per Mazzini la soggettività individuale e la socialità, destinate alla reciprocità e alla collaborazione. Il segreto dell’arte, come della vita, consiste nell’accordo perfetto di questi due termini fondamentali, auspicato da tutti con maggiore o minore consapevolezza. La musica italiana, in virtù degli influssi religiosi impressi dal Palestrina, è essenzialmente melodica e ispirata all’individualità. Ecco come la descrive il Mazzini: lirica sino al delirio, appassionata sino all’ebbrezza, vulcanica come il terreno ove nacque, scintillante come il sole che splende su quel terreno… Balza di cosa in cosa, d’affetto in affetto, di pensiero in pensiero, dalla gioia estatica al dolore senza conforto, dal riso al pianto, dall’ira all’amore… L’arte per l’arte è formula suprema per la musica italiana. Quindi il difetto di unità, quindi il procedere frazionario, sconnesso, interrotto…
L’armonia invece è l’elemento generatore della musica tedesca, che rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, l’Idea hegeliana, ma senza l’individualità che traduca il pensiero in azione, che svolga e simboleggi l’idea. È immagine di Dio sulla terra: tempio, religione, altare e incenso, ma manca l’adoratore. La musica europea, infine, scaturisce dall’utopia dell’aretino Guittone e dalle ballate dei trovatori provenzali, con l’intento di affratellare le coscienze nell’unità, tenendo conto di tutti quegli elementi musicali che esprimono la sintesi di un’epoca, perché la «musica è l’algebra dell’anima».
E pensare che da ragazza invidiavo mio fratello quando risolveva equazioni ascoltando concerti jazz dalla radiolina senza scomporsi, anzi divertendosi e picchiettando di tanto in tanto ritmicamente con la penna sul quaderno degli esercizi per imitare la danza delle note. Lo invidiavo e avrei voluto imitarlo per moltiplicare il tempo e riuscire a fare due cose insieme: magari studiare e nel frattempo godermi la musica. La bulimia del fare, che ancora non mi ha abbandonato, mi dominava già allora impedendomi di prendere il tempo necessario per distrarmi con un’occupazione distensiva. Per una vita intera, non sono riuscita mai a fare altro che perdermi nella musica: vestire di note i miei pensieri, la mente tutta presa nella melodia. Ricordo la prima volta che, mentre giocavo come al solito in cortile con i ragazzi a ‘palla prigioniera’, mi giunse ad alto volume dalla radio di qualche incauto condomino l’aria di un vecchio valzer degli anni ’50: Moulin rouge, quando la canzone francese ancora dominava nel panorama canoro europeo, prima di cedere il posto agli ineffabili ragazzi di Liverpool.
Fu il mio primo amore musicale, quello che non si scorda mai e mi provocò lo stesso trasalimento, l’identico inaspettato stupore di uno sguardo che ha il potere di cambiarti la vita (si spera in meglio, ma non è detto). Per l’intero pomeriggio mi rimase in mente quel romantico ritornello dal ritmo cadenzato e suadente che i francesi chiamano al femminile la valse; ne seguivo ossessivamente le dolci note soffuse che ben presto mi avrebbero spinto a ballare. Sì, perché la musica, quando ti prende, sa costringerti, e sono scintille di poesia che ti entrano in testa a colorare le emozioni. E non entrano solo in testa, ma nella tua fisicità, nella gestualità, nella corporeità che esprimi nel rendere visibili le tue fattezze mentali mentre balli. È forse per questo che la grande ballerina americana Isadora Duncan, anticonformista e coraggiosa quanto sfortunata, soleva dire: «Se potessi dirlo, non dovrei danzarlo».
Qualche anno più tardi impazzava l’orchestra di Ray Conniff, che reinventava i più famosi ever green con arrangiamenti e ritmi ballabili che ne rinnovavano l’incanto. E fu al ricevimento per la prima Comunione di una mia cuginetta che Tony mi invitò a ballare Besame mucho, un classico dei classici in versione rumba beguine, che fra le cover di quell’album era una delle più riuscite. Qualche mese prima, al mare, avevo ascoltato per caso dal jukebox dello stabilimento balneare – dove eravamo in vacanza insieme ad altri quattro amatissimi cugini – quella che sarebbe diventata la canzone più importante della mia vita.
It’s so easy to surrender, cantata da Tony Williams (uno dei Platters che però in quel caso cantava da solista), era il brano preferito di una coppia di fidanzati che inevitabilmente capitavano sulla rotonda sempre alla stessa ora per mettere la loro monetina nel jukebox, come in un rituale che quotidianamente si rinnovava, guardandosi teneramente negli occhi. La canzone era stupenda, perfetta per un ballo da mattonella e me ne impadronii quasi subito per non lasciarla mai più: sentivo che in essa c’era il mio breve presente ma soprattutto un futuro ancora sconosciuto ma già intrigante, a cui sembrava alludere lo sguardo ammiccante del cantante dalla copertina del vinile a 45 giri da me prontamente acquistato. Sentivo di aver bisogno di questa canzone, che avrei perso e ritrovato infinite volte nella vita. La traduzione italiana dal titolo Un’anima tra le mani rischiava di apparire un po’ retorica nel testo e non rendeva ragione dell’incantesimo che si sprigionava nella versione inglese.
Poi fu Il nostro concerto, un’epifania di bellezza ai miei occhi: «Dovunque sei, se ascolterai, vicino a te mi troverai. Vedrai lo sguardo che per me parlò e la mia mano che la tua cercò». Mi ritrovai a duettare spudoratamente con Umberto Bindi, trascinandomi la fonovaligia in ogni stanza della casa per non perdere neppure una nota mentre – perennemente affaccendata come al solito – mi spostavo da un ambiente all’altro, suscitando la curiosità ironica di mia madre alla vista di una tale iperattività. Da Bindi a Tchaicovsky – il mio primo amore sinfonico – il passo fu breve, compiuto con grande naturalezza. Il Concerto n. 1 per piano e orchestra sembrava scritto per me e a furia di ascoltarlo imparai letteralmente a memoria ogni pianissimo, ogni sfumatura di quel prodigioso e solenne dialogo che intercettavo tra la mente e il cuore, attraverso i messaggi che corrono tra il piano solo e l’orchestra.

Il resto è storia, storia pucciniana. Non c’è una nota di Puccini che non mi appartenga e spesso mi chiedo a quale delle donne da lui descritte io assomigli di più. Non certo a Turandot, algida e distante nel suo splendido palazzo, che attende imparziale l’esito dell’enigma che si scioglierà all’alba; non riesco ad immedesimarmi neppure in Madama Butterfly, perché non saprei starmene in un angolino ad aspettare qualcuno che non merita tutto questo cruccio. Trovo invece che Mimì potrebbe starmi a pennello, per l’abitudine di cogliere il primo sole del mattino dopo la gelata, di preparare il pranzo da me stessa e spiare la crescita di rose e ginestre nei vasi sul balcone. E anche perché mi piaccion quelle cose che han nome poesia.
Ho meditato tutto questo in una mattina d’estate, sul battello che portava i turisti tra le anse e i cespugli del lago di Massaciuccoli, di fronte alla casa dove è vissuto ed ora è sepolto Giacomo Puccini. Qualcuno aveva avuto la buona idea di non improvvisare banali commenti dall’altoparlante per descrivere il luogo ad ignari e distratti turisti, ma di lasciar andare solo la musica del maestro toscano come la colonna sonora di un documentario o, meglio, di un sogno. E mentre uno stuolo di nere folaghe compiva – indisturbato – larghi voli sull’acqua e l’orizzonte si offuscava per un’ineluttabile foschia, sulla superficie del lago danzavano le note del Coro a bocca chiusa da Madama Butterfly.

Certo, la musica è la più impietosa delle arti, perché va dritta al cuore.

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