La domanda delle domande

– di Mirella Napodano –

Si sa che un nome seguito da un complemento di specificazione – come ad esempio ‘Il Cantico dei cantici’, ‘Il Libro dei libri’ – in ebraico statuisce un superlativo assoluto. E tale dovette apparire a Dante la domanda delle domande: ‘Chi fuor li maggior tui? messa da lui stesso in bocca al fiero ghibellino Farinata degli Uberti, che il divino poeta incontra tra le anime più nere nel sesto girone dell’Inferno descritto nel Canto X.

‘Chi fuor li maggior tui? è un interrogativo interessante, posto da Farinata al poeta non per pura curiosità di sbirciare l’albero genealogico dell’Alighieri quanto per indagare sulla sua appartenenza politica in campo avverso. Rivolta a noi contemporanei, per come la intendo io, la stessa domanda può evocare una ricerca più intima e strettamente identitaria. Infatti l’espressione maggiori non deve riferirsi necessariamente alle figure dei genitori o degli antenati, andando più indietro negli anni, quanto piuttosto agli autori che hai incontrato nella tua formazione morale e culturale, alle persone che ti sono parse esemplari nella condotta o i cui ideali ti hanno appassionato, delineando i pilastri della tua formazione. E qui intendo formazione proprio come Bildung, non meglio traducibile dal tedesco se non come ‘costruzione, edificazione’ del Sé. Si tratta degli autori che hai amato di più e che hanno impresso una traccia indelebile nella tua mente e non solo sul piano cognitivo, ma ancor di più su quello emotivo o – per usare un linguaggio appena un po’ più tecnico – sul versante dell’intelligenza emotiva.

Non è affatto irrilevante, ai fini dell’azione creativa espressa da una persona, il fatto che abbia preso a modello questo o quel grande personaggio della storia umana e/o familiare: un condottiero, uno scienziato, un santo, un artista o – meglio ancora – l’insieme di queste personalità. Va subito chiarito però che riferirsi a qualcuno non vuol dire uniformarsi in toto alla sua condotta, assumerne gli atteggiamenti, imitarne gesti e discorsi. In quel caso, si cadrebbe nell’errore che Martin Buber descrive in una delle sue opere più famose: Il cammino dell’uomo, in cui immagina che cosa gli sarà richiesto nell’aldilà circa il suo comportamento sulla terra. E la sua risposta è che nessuno gli chiederà perché non sia stato un novello Mosè, né perché non ne abbia imitato l’ardire, la visione lungimirante, l’energia straordinaria dell’azione: doti necessarie al successo personale e al bene comune in ogni epoca storica e in ogni situazione umana. Niente di tutto questo. Buber riconosce che gli sarà posta una sola, chiara e netta domanda: “Perché in vita non sei stato fino in fondo Martin Buber?” E questo perché solo lui poteva far fruttare i suoi talenti e nessun altro al posto suo. Diventa ciò che sei è l’imperativo categorico di Buber. Per metterlo in pratica bisogna conoscersi a fondo, sapersi ascoltare, essere avvezzi ad un costante esercizio di introspezione, al fine di acquisire consapevolezza di sé in quel complesso processo di ricerca identitaria che si struttura per gran parte nell’adolescenza, per protrarsi per tutto l’arco della vita. Al contrario, misconoscersi tradendo la propria vocazione equivarrebbe ad un pericoloso autoinganno, un voltafaccia rivolto a se stessi, un disertare la propria unicità, la comunità di appartenenza e – in ultima analisi – l’intera umanità, privata a motivo di questa defezione di un apporto emotivo-cognitivo, etico e relazionale, singolare e irripetibile. Certo Martin Buber, come ogni israelita che si rispetti, avrà guardato a Mosè con grande ammirazione, ma non aveva il diritto – né tanto meno il dovere – di riprodurre (ammesso che fosse stato possibile) quello stesso modello, come un vano replicante privo di autonomia.

A questo punto non mi resta che abbandonare ogni pudore e confessare apertamente ai lettori chi ‘fuor li miei maggiori’, adottando il medesimo, docile comportamento di Dante nel rivelare le proprie origini al dannato che gliene faceva richiesta. E la prima figura che mi viene in mente è il filosofo Immanuel Kant. Il suo imperativo categorico, la morale espressa nell’indimenticabile e poetica frase: Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me sembravano fatti apposta per far innamorare un’adolescente come me che all’epoca leggeva brani delle sue opere in uno stato d’animo di luminosa folgorazione. Ricordo ancora l’emozione provata nello studiare Kant, con la stessa intensità con cui rivedo il vinile a 45 giri di Sergio Endrigo, gradito dono giunto nello stesso periodo da parte di un corteggiatore che non aveva l’ardire di dichiararsi a voce.

Il secondo dei miei ‘maggiori’ è sicuramente Martin Luther King: l’eroismo del suo I have a dream declinato dalla prigione nella famosa Letter from Birmingham e in Strength to love mi hanno letteralmente affascinato, mentre mi chiedevo (e non ho ancora smesso di farlo) perché mai in un paese cosiddetto democratico si debba soffrire fino a morirne per affermare verità elementari che dovrebbero essere scontate, come quelle allora rivendicate dal Movimento per i diritti civili degli afroamericani. Un altro strenuo difensore dei diritti degli ultimi, ai quali vuole a tutti i costi ‘dare la parola’, è don Lorenzo Milani, che non esito a definire quasi un idolo per me ragazzina intenta a leggere – incredula – quel miracolo di prosa profetica che è Lettera a una professoressa. La contestazione del ’68 era ormai alle porte e si respirava aria di ribellione verso una scuola che si comportava come un ospedale che cura i sani e rigetta gli ammalati. Frasi come queste si avvincevano nei miei pensieri di studentessa: Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Ed anche: Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è amore. Il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Perciò essere maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista, essere amante ed essere amato sono in pratica la stessa cosa.

In quegli stessi anni usciva sugli schermi cinematografici il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Alla fine del film gli spettatori avevano gli occhi lucidi per la poesia della sua sceneggiatura incisiva ed essenziale, la fotografia in bianco e nero che accentuava i contrasti di luce, i lineamenti contadini degli attori e la stupenda colonna sonora, che dalla Passione secondo Matteo di Bach spaziava verso i canti popolari russi, greci ed ebraici genialmente rielaborati da Louis Bacalov. Fecero il resto in me gli Scritti corsari, in cui la descrizione dell’invisibile rivoluzione conformistica diceva del destino presente e futuro della società italiana, della sua classe dirigente, della fine irreversibile e violenta di una storia secolare.

Di tutt’altro tenore è la passione che nutro per la poesia di Pablo Neruda, che potrei definire rispetto al mio mondo affettivo la codificazione verbale più efficace – ineguagliabile nella forma e nei contenuti – mentre l’intero cifrario dei miei pensieri musicali risiede nell’opera di Puccini, che ritengo l’autore che meglio ha rappresentato nei personaggi del melodramma la complessità del mondo femminile. La sua stessa tecnica di composizione melodica ed armonica, attraverso un utilizzo molto personale degli intervalli, produce toni smorzati e sospesi che lasciano posto al rimpianto e alla nostalgia. Questo stile di scrittura musicale mi appare connotato da spazi di dialogo volutamente lasciati all’ascoltatore, per consentirgli di intessere una qualche relazione con l’autore e con i protagonisti della vicenda messa in musica.
Ciascuno di noi può entrare in relazione con i suoi ‘maggiori’, porsi in dialogo con loro, fare del loro esempio oggetto di riflessione, sperimentando così una vera e propria pratica filosofica, un esercizio olistico di rinnovamento di sé indirizzato al benessere personale e comunitario. L’equilibrio che ne deriva non è solo apprendimento, ma cura di sé, accoglienza, esperienza innovatrice.

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