Settantacinque dollari per una mimosa di cenere e sangue
– di Emanuela Sica –
Un antico proverbio dice: “Le donne sostengono la metà del cielo”. Se è vero che ci sono donne che creano, con la farina della caparbietà, un pane vitale fatto di libertà e coraggio, che non si fermano ma corrono, che si ribellano alle schiavitù del patriarcato, degli stereotipi e della violenza, vivendo solamente di sé stesse… è anche vero che non sono soltanto queste a sostenere la c.d. “metà del cielo”. Il peso è, tragicamente e asfitticamente, per la maggior parte, sulle spalle di quelle donne che si piegano al ritmo della vita, che lasciano uno spazio incompreso nel cuore del mondo, che si soffermano a guardare il cielo mentre la morte le divora come un lupo, che si inchinano davanti al padrone che le usa come schiave, che non si pentono di aver amato chi le sta uccidendo, che in un sorso bevono la violenza del loro aguzzino, che si muovono costantemente contro sé stesse, che si spogliano della dignità per sopravvivere al giorno, che si lasciano comprare per poche euro…e ce ne sono così tante che sarebbe difficile raccontarle tutte. Vorrei far emergere una sola storia, tra le tante, solo per “calpestare”, definitivamente, quella “mimosa” che ci viene regalata. L’8 marzo era, in origine, una giornata di lotta, il simbolo delle vessazioni che la donna aveva dovuto subire nel corso dei secoli. Tuttavia, con il passare del tempo, il vero significato è andato sfumando per subire una metamorfosi involutiva in “festa” ma, credetemi, non c’è proprio nulla da “festeggiare”. Vi parlerò quindi di un fiore, apparentemente identico a quello che viene venduto come simbolo “femminile”, che, tuttavia, emana un’essenza paragonabile ad un pugno che affonda e preme, senza mai diminuire la sua violenza. Così, in un cammino senza ritorno, molte donne si sono lasciate prendere da quel crudele destino che le ha messe dove dovevano stare.
“Settantacinque dollari per una mimosa di cenere e sangue” – New York, marzo 1911. “Chiudete tutte le uscite!”, fu l’ordine secco dei proprietari della fabbrica. Seduta stante ogni porta venne chiusa, lo scatto rumoroso dei chiavistelli risuonò nelle stanze affollate come il suono di una campana mesta che annuncia l’inizio di un funerale. La decisione fu presa, senza esitazione, per bloccare lo sciopero. Max Blanck e Isaac Harris si scambiarono uno sguardo compiaciuto e si strinsero la mano. Con una spocchia d’orgoglio si affacciarono alla finestra del loro ufficio, al decimo piano dell’Asch Building, e videro che in strada, finalmente, non c’era più nessuno. Niente cartelli, niente frastuono, solo “assenza vitale” come ogni “benedetto giorno”. A guardarli bene, quei due, avevano i lineamenti apparentemente gentili eppure in quella carne i vermi brulicavano senza alcuna resa, erano demoni travestiti da due gentiluomini di città. “In trappola si lavora meglio…” sembravano quasi parlare all’unisono, quelle lingue bagnate da un sorso di buon Bourbon, senza che nessuno sentisse i pensieri “osceni” dell’altro. La loro compagnia, la Triangle Shirtwaist Company, produceva le camicette alla moda di quel tempo, le “shirtwaist”. Circa cinquecento lavoratori erano occupati e moltissime, più della maggioranza, erano giovani donne immigrate. I turni che facevano contavano quattordici ore, il salario medio era tra i sei e sette dollari alla settimana. Le condizioni di lavoro erano spaventose, quasi quanto la coscienza dei proprietari. Il sindacato non era mai entrato in quella azienda: diritti zero, sicurezza inesistente. Le donne della “Triangle” lavoravano sessanta ore la settimana, senza contare gli straordinari imposti e poco pagati. La sorveglianza era feroce, esercitata da “caporali” esterni, retribuiti a cottimo dai padroni, ognuno dei quali sorvegliava e retribuiva a sua volta sette ragazze imponendo ritmi massacranti (spesso origine di incidenti durante le ore lavorative). Negli ambienti sovraffollati…enormi quantità di scarti di tessuto (infiammabile) erano ovunque, in ogni angolo della fabbrica, anche sul pavimento. I locali illuminati con luci a gas senza vetro protettivo. La produttività doveva essere ristabilita, a qualunque costo, e impedire le uscite era l’unico modo per far riprendere i lavori. Quell’abbozzo di mattina si era dileguato velocemente, nel pomeriggio il rumore delle cucitrici era l’unico suono che si poteva udire in strada. Così, quando il fumo entrò nelle stanze, come una spia silenziosa, passando dalle crepe delle porte, quando dai piani sottostanti si alzò la voce “Al fuoco” … nessuno se ne rese conto. Con voracità sovrumana, risalendo dall’ottavo piano, un incendio bruciò le vite e le speranze di “centoquaranta sei schiavi”. Le “cento ventitré schiave” che bruciarono insieme ai “ventitré maschi” … un secolo fa, nel rogo della camiceria, avevano fra i sedici e i ventitré anni. Molte di loro, per scampare alle fiamme, si lanciarono dalle finestre, morendo “sfracellate” sul marciapiede sottostante. Quella tragedia ci riguarda da vicino perché tra le vittime c’erano “trentanove” donne italiane, immigrate nella Grande Mela, le altre in gran parte ebree venute negli Stati Uniti dall’Europa orientale, dalla Russia soprattutto. Quella fu: “la fonderia umana” nella quale si fusero povertà, corpi, nazionalità. Dove si fuse tutto tranne la sregolatezza del potere economico. I proprietari riuscirono a mettersi in salvo. Il processo che seguì li assolse e l’assicurazione pagò loro “sessantamila” dollari per i danni subiti (corrispondenti a circa “quattrocento” dollari per ogni morto), il risarcimento alle famiglie fu di “settantacinque” dollari. Nessuno sa davvero se questo incendio sia stato all’origine dell’8 Marzo ma, probabilmente, non c’è episodio più significativo per comprendere la condizione lavorativa della donna nella società industriale. Una schiava, sfruttata per pochi dollari, senza alcun diritto, neppure quello di voto, sottomessa al pregiudizio di essere inferiore, in tutto, rispetto all’uomo con una sola libertà di scelta ossia “come morire”. Se di parto, o in un incendio, o uccisa da un compagno/marito violento, o dalle forze dell’ordine nella repressione degli scioperi dell’epoca “…and so on.”
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