Lettere / 3 – Il segreto

– Di Emanuela Sica –

Mi vedi? Sono qui, seduta all’ombra del tiglio. È tempo di fioritura, l’aria mi inonda e mi travolge con il suo profumo. Stavolta non ho le mani sporche di terra, come quando osservavo, scavando, la vita dei semi. I miei preferiti, quelli di pomodoro. Una parte della tua semina rapinati dalle formiche, un’altra sommersa, dava gli anelati frutti. Vedi, il seme insegna cos’è la resilienza. Pur sotterrato, ricoperto da una barriera morbida, che lo rinchiude in un luogo scuro e senz’aria, riesce a crescere, riemergere, fruttificare. Si spacca in due per tirare fuori il meglio di sé. Ha bisogno di quell’assenza di luce, dell’umidità, per disfarsi del vecchio, morire e poi germogliare nel nuovo fusto, solidamente rivolto verso il sole. E che dire di quelle sfere di rosso acceso, turgide e succose, agguantate velocemente, nascoste per non farmi scoprire, nella cartella, e divorate a scuola al posto della merendina? Un gusto che ritrovavo, ma più deciso, nel tuo sugo “semplice”. Quella parola tra virgolette mi fa sorridere ancora adesso. Semplice è quel sugo “senza niendi dindu1” a parte l’olio, il sale, l’aglio, la carota, “nu pocu d’c’poddra2” ma dal sapore unico, irripetibile. Un sugo che nessuno ha mai saputo “indovinare” perché era figlio del “segreto” e del: “Cittu, nun dì niendi3”. Ma io ti osservavo, con attenzione, fingendo di fare i compiti e, “comm’a nu viendu4”, ti giravi di spalle, infilavi il cucchiaio nel barattolo di “n’zogna5”, che avevi nella grande tasca del grembiule, e lo catapultavi nella pentola. Lo potevo sentire, forte e chiaro, quello sfrigolio, quasi alterato e nervoso, accompagnato poi da un inconfondibile odore. E tu, per mascherarlo, davi un colpo di tosse, anche due. Poi, quando ti chiedevo: “Ma che è st’addor?” mi rispondevi, quasi infastidita: “Niendì, è l’agliu ca s’è appicciatu6” salvo poi, un giorno, capitolare e raccontarmi la verità, quando ho avuto l’età giusta. Insomma, solo io conoscevo il tuo misterioso ingrediente ma avrei tenuta chiusa e cucita la bocca per sempre, anche con mia madre, che avrebbe detto: “Che schifo, fa ingrassare”. Quanto vorrei che tu fossi quel seme. Ora non saresti così dannatamente immobile, con gli occhi chiusi, il sorriso nascosto tra la bocca “nz’rrata cumm a lu purtonu d’viernu7”. Mi consola soltanto averti vissuta, ogni giorno, nei miei trent’anni, dalla culla al letto di gladioli, nell’abbraccio del tempo che mi hai donato, insieme all’ultima carezza stanca. Non capisco perché questo dolore pulsi così forte, tu hai il triplo dei miei anni…eppure, se ti scrivo con l’inchiostro dei ricordi, torno bambina e ti guardo, in trasparenza, mentre pianti i semi e mi dici: “Apri l’acqua e doc’ doc’ e falli vev’ nu pocu8”. Ma le piante seccano, il tiglio perde le foglie, l’erba cresce senza cura, dietro di me tutto scompare, resta solo uno sfondo marrone. La realtà, severa, mi catapulta qui, mentre ti accompagno per la dolorosa via delle castagne, che dal paese porta al cimitero. Però il tuo segreto è salvo, non lo saprà mai nessuno, oltre me. Tu, mi raccomando, appena arrivi, dai un bacio a papà. (In foto: Quadro di Seth Harvenkamp, 1980 Ritratto)

 

1 Senza l’aggiunta di alcun condimento
2 Un po’ di cipolla
3 Zitto, zitto non dire nulla
4 Come un vento
5 Sugna (grasso del maiale)
6 Niente, è l’aglio che si è bruciato
7 Chiusa come il portone d’inverno
8 Innaffiali dolcemente

 

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