Lettere / 2 – Chi sono…
È quest’alba che si apre, silenziosa, sul tuo corpo assuefatto ancora dal sonno, a darmi l’idea, insolita, di scriverti. Non l’ho mai fatto. Non so neanche bene come si fa. Sono qui, al tuo fianco, dalla stessa parte del mondo, nella terra dei tuoi natali ma nel lato opposto del letto. La mela sul comodino ha il tuo morso, ieri sera eri stanca, svogliata e il cibo doveva essere un peso insopportabile per il tuo stomaco già debilitato. Vedi, la polpa ha cambiato colore, virando dal bianco al marrone. La buccia resiste ma non potrà proteggerla ancora per molto. Il frutto è destinato a marcire. Il tempo ci morde, ci mangia, a volte ci sputa eppure vivere senza il tempo sarebbe strano, anomalo, probabilmente inutile. Senza il miele dell’infanzia, la speziata adolescenza, il pane morbido della vecchiaia saremo condannati a ripeterci nelle azioni, giorno per giorno senza che nulla cambi, passi o muti. E forse la bellezza della vita sta proprio nel mutamento. Come questa mattina così diversa da ieri, dall’altro ieri moltiplicato per giorni e giorni.
Oggi sono quasi due mesi da quell’assurda incomprensione del destino. L’aria che manca, la corsa, la pallida consapevolezza di essere niente davanti a quella scure caduta sui tuoi giorni. Passato che si ribalta nel presente, ora e qui, dipinto da colori sereni, nelle saette multicolori luminescenti… che si riflettono sui cristalli del lampadario. Eccomi, scivolo piano nel tuo rifugio, sollevo le coperte della notte, ti sfioro appena con un bacio sulla fronte, legandomi al primo raggio di sole che si insinua tra le fessure delle tapparelle. Dimmi pure che mi sono fatta attendere. È così, sono colpevole. Ma ora ti sono accanto e, al tuo risveglio, non mi scorderai.
Questo giorno è già nel diario dei migliori. Con dolcezza ti carezzerò le gote, tirando appena i margini della bocca, prima piano, poi tenace ma smuoverò il broncio della tristezza. Poi, quando sentirai il mio profumo superare l’ingresso delle narici, correndo a inondare i tuoi polmoni, avrò il tuo cuore ad abbracciarmi stretto, tanto da mancare il fiato. Era quello che volevi, avermi anche solo per un istante. Colorare questo muro d’azzurro, cancellare il grigio, rivestire le aride valli d’erba, piccola ma rigogliosa. Allontanare il vento che batte i tuoi alberi, disperse le capinere oltre il ciglio del burrone. Divagare nelle vene, nella portata veloce del tuo sangue. Arginare le lacrime. Tenerle nella diga degli occhi. Basta elemosine al dolore. Non pagherai più pegno. Avrai nell’iride un bagliore, lucido, forse appena arrossata la cornice, ma asciutta. La pioggia, che pianta nuovi semi al tormento, sarà prosciugata dal caldo di questa sfera di fuoco, adesso fondente.
Eccola, la sveglia suona. Il corpo si muove. Io mi sposto solo un po’, per farti spazio. Stiri le braccia, ti smuovi i capelli, come a volerli ordinare senza riuscirci, dai uno sguardo allo specchio senza darmi confidenza. Io però ti osservo, rifletto, non resterò per lunghi anni ma quanto basta per capire cosa si prova. Infili le pantofole, prendi la vestaglia, carezzi il posto dove hai dormito ma che non era il tuo. Mi fai cadere con un colpo secco alle lenzuola. Guardi il pulviscolo, controluce, che scende su di me, come neve a sciogliersi sulla lava. Eppure, con uno sbuffo di sconforto, ti volti e scendi veloce. Sbrighi la macchinetta del caffè come sempre, senza neppure contare i cucchiai per riempirla. Il telefono rompe la monotonia del silenzio. Ti precipiti a rispondere: “Pronto” e un filo d’eternità s’annoda nell’attesa di quella voce. “Ditemi che è vero…” ma tu sai che lo è, mentre deglutisci aria e smarrimento, misto all’odore del caffè che risale borbottante. “Lo abbiamo estubato, ora respira da solo”. Le ginocchia tremano, quasi non resistono alla voglia di crollare mentre io ti afferro, ti tengo. Nell’abbraccio prendo dimora nel tuo presente. Chi sono te lo dico, spostando appena una ciocca di capelli. La mia voce è senza suono ma entra nei timpani e poi esplode nel tuo sorriso: “sono… la Felicità.”
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