Missiva immaginaria di Giulio Regeni alla madre

– Franco Genzale –

Da questa settimana, ogni venerdì, troverete una nuova rubrica — Lettere — curata da Emanuela Sica. Sono missive “immaginarie” nelle quali vengono ripresi, con sottile e delicata venatura poetica, fatti che hanno scosso, od anche semplicemente interessato l’opinione pubblica.
La prima Lettera immaginaria è riferita al barbaro omicidio in Egitto — tra il gennaio e febbraio 2016 — di Giulio Regeni.
Emanuela Sica “immagina” cosa avrebbe scritto alla madre il giovane, ormai non più vivo, per raccontare gli ultimi attimi della sua assurda, tragica fine.

– di Emanuela Sica –

Cara mamma,

ti scrivo senza scrivere su questo fazzoletto bianco col righino azzurro. Lascio le mie ultime lacrime come pegno al cotone ma prima ancora alla tua mania di stirare tutto, anche questo ritaglio di stoffa, che hai ripiegato con cura nella valigia, unico compagno di questa agonia. L’odore di lavanda mi inebria le narici, ormai scomposte, mentre le parole, liquide, escono dagli occhi veloci e severe, trafiggono questo silenzio che mi urla costantemente il tuo nome. Piegato sulle ginocchia, quasi rotte ma ancora capaci di sostenermi, appoggio la faccia all’umidità del muro. Non so perché ma l’odore mi riporta indietro negli anni, al muschio che raccoglievo con papà. Ai pezzetti di bosco e pietruzze messi nelle tasche. Alla scoperta della vita che brulicava nonostante il gelo, la neve. Il sentiero delle favole, i miei passi tra le querce e mi sembra di risentire il crepitare delle foglie sotto gli scarponi, mi accompagnano melodicamente e mi liberano da questo vuoto di rumore. Se così deve andare andrà. Non ho colpa di questa fine e se mai ve ne fosse non sarebbe la mia. La schiena è un campo di battaglia, un sepolcro di torture. Ti prego, carezzami la fronte, cantami quella canzone che ora non riesco a pronunciare, tanto la bocca è gonfia di sangue e i denti saltati. Se puoi respira per me, la nausea risale sino a bloccare l’aria. Le botte, selvagge, con lame e bastoni, mi hanno devastato con scientifica precisione, quasi giocassero a scacchi, nel giro di pochi secondi, per farmi parlare. “Parlare di cosa? Di cosa?” Ho continuato a urlarlo sputando disperazione e saliva, ma senza esito. Le mie viscere frammentate e quasi esplose se lo stanno chiedendo. Il petto agonizzante di meticolosa cattiveria sussulta al pensiero di averne ancora… eppure, oltre questo cencio di materia sofferente, sono ancora io, Giulietto tuo. Quel discolo goloso di marmellata (quella di more) che per pulirsi le dita, complici del furto inaspettato, lasciava segni inequivocabili di colpevolezza, sul retro dei pantaloni, ancora freschi di bucato… mentre tu facevi finta di nulla. Sono io, piccolo e grande, nell’arco di un sospiro, che sale veloce a spegnere la luce. Perdonami se non leggerai mai questa improbabile lettera, se non stringerai tra le mani questo messaggio di perle grumose e pianto, testimoni del mio Gòlgota privato. Probabilmente verrà con me nel pozzo dell’oblio, insieme al mio corpo. Però sappi che questa preghiera dai movimenti trasparenti, che si gonfia nella cella, ad ogni fievole discesa del mio cuore, ormai vicino al riposo, arriverà fino a te, oltrepassando il muro. Ti chiedi come sia possibile? Mamma, tu sei la mia radice senza tempo e senza spazio, senza distanza e senza indugi. L’albero perde le foglie, i rami si accartocciano, ma qualcosa di me resta nel terreno. Nel tuo ventre il mio passaggio ha disegnato un aquilone. Il filo, attorcigliato alle mie dita livide, tagliate ma non recise, stenta a tenersi. L’ape che si è posata sulla tua rosa, complice la fuga dell’aquilone, non trova nettare: è appassita. Adesso volo nel cielo anch’io, slegato dalla vita. Sai, non sento più dolore, sorrido, corro. Tu mi guardi dalla finestra di casa. La verità è nei crateri della luna. Ormai è sera.

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