Il sisma di 40 anni fa, il Covid di oggi: una lezione dimenticata
Mi sono posto una domanda, tutt’altro che retorica, e credo se la siano posta molte altre persone che seguono le vicende dell’emergenza sanitaria da comuni cittadini oppure nelle funzioni politiche, istituzionali, sociali e professionali che svolgono. La domanda è: perché l’Asl irpina ha rifiutato l’offerta di collaborazione del Comune di Avellino per individuare, attraverso uno screening a largo raggio, gli eventuali asintomatici Covid del capoluogo?
La proposta era la seguente: il Comune effettua a Campo Genova – a proprie spese e in collaborazione con l’Ordine dei Medici – i tamponi rapidi; i soggetti con esito positivo vengono immediatamente sottoposti ai tamponi definitivi dell’Asl, che pure sta operando a Campo Genova, per le procedure di competenza.
L’idea, vale ricordarlo, era stata suggerita al sindaco da un medico – Franco Russo – che è consigliere comunale di minoranza, per di più fiero oppositore della giunta Festa, e che aveva già partecipato da volontario allo screening della scorsa primavera.
Orbene, da martedì stiamo assistendo al paradosso dell’Asl che fa i tamponi per proprio conto, come da competenza del servizio sanitario regionale, del Comune di Avellino e Ordine dei Medici che conducono l’indagine epidemiologica in via del tutto autonoma, iniziativa decisamente encomiabile coi tempi che corrono, e che di certo apporterà un contributo significativo al tracciamento dell’infezione nel capoluogo.
Il paradosso è in almeno due aspetti. Il primo: ogni tampone rapido positivo fatto dall’Amministrazione Festa deve essere ripetuto presso un laboratorio autorizzato. E l’iter è stato già programmato. Il secondo aspetto: i tamponi eventualmente positivi processati dal laboratorio scelto dal Comune dovranno essere, a loro volta, rifatti dall’Asl per la conferma definitiva dell’esito. Conclusione: un bel po’ di soldi impegnati, ma soprattutto tanto tempo prezioso sprecato.
E qui la domanda “rinasce” spontanea: ma perché l’Asl… bla bla bla?
Non entro nel merito di questo e di altri consimili perché. Né sollecito risposte: equivarrebbe ad alimentare polemiche che in questa fase così delicata e complessa della pandemia produrrebbero lo stesso effetto dell’acqua bollente sulla scottatura.
È utile, piuttosto, utilizzare questo esempio, che non è nemmeno il più eclatante tra ciò che si vede in giro, come paradigma dello scollamento che c’è tra le diverse istituzioni e servizi pubblici locali in una emergenza sanitaria ed economico-sociale che richiederebbe invece sforzi convergenti da parte di tutti. L’impressione che si ricava da circostanze come quella accennata è che non si sia preso sufficiente coscienza del “mostro” che abbiamo di fronte, della sua estrema pericolosità, della fretta che dovremmo avere nel trovare e praticare soluzioni adeguate per contenere al massimo i danni: che sono danni in termini di vite umane, molto prima che economici.
Niente salti in cattedra, per carità. Di professori in giro ce ne sono già troppi. Nel sottoscritto sopravvivono sufficiente buon senso ed umiltà, oltre che amor proprio, per evitarsi la qualifica di ennesimo gallo sulla monnezza. Solo una brevissima constatazione, per lo più ispirata da questi giorni che rinfrescano la memoria del terremoto di quarant’anni fa.
Senza indulgere alla retorica, quella immane tragedia alimentò uno spirito di straordinaria solidarietà, non solo tra le genti d’ogni angolo d’Italia, ma anche tra le istituzioni locali, tutte, nessuna esclusa. Furono sotterrate, per un tempo sufficiente o giù di lì, le asce di guerra dei partiti politici. Il sentimento prevalente del bene comune emarginò gli egoismi. Le azioni concrete e silenziose trionfarono sui protagonismi inconcludenti. Insomma, fu una prova collettiva di serietà e di responsabilità.
Forse oggi come allora c’è un bisogno estremo di sussulti umani.
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