Io, irpina, da una vita a Milano, vi racconto l’altra faccia del Covid

(FRANCO GENZALE) – Anna Lo Calzo, origini irpine, ex modella, giornalista pubblicista, vive a Milano praticamente dalla nascita. Mi ha parlato di un episodio vissuto in prima persona nel capoluogo lombardo al tempo del Covid. Le ho chiesto di raccontarlo per voi, nella più generale cornice dell’emergenza sanitaria che ha colpito soprattutto la Lombardia. Ne viene fuori qualche sorprendente verità.

 

– di ANNA CARMEN LO CALZO –

Milano, la Grande Milano. Nonostante tutto si è rialzata!

Nonostante il Covid-19 e il lungo e tragico lockdown nazionale, Milano ha digerito tutto, si è rimessa in “spolvero” e se la tira come prima, anzi, più di prima.

A settembre fiere, eventi, fashion week, wine week, sfilate di auto d’epoca, compratori e turisti tornati a frequentare hotel, negozi, ristoranti, terrazze, lounge bar, locali notturni, parchi e navigli.

Un settembre baciato dal sole, da cieli azzurri e tersi che non vedevamo da anni. La metafora della rinascita e della voglia di rivincita.

Nel frattempo, la vita continua anche negli aspetti meno entusiasmanti e per i meno fortunati, a prescindere da spritz e vernissage.

Superata l’emergenza delle terapie intensive per covid, nei mesi estivi e fino a settembre, gli ospedali di Milano avevano ritrovato il loro ritmo e la loro rinascita. Medici ed infermieri avevano “riabbracciato” i loro pazienti cronici (che per mesi non avevano avuto accesso ai reparti) e finalmente avevano accolto coloro che attendevano un intervento programmato da mesi.

Ma il sospiro di sollievo è durato poco. La vita continua è un concetto che vale per tutti, anche per i virus.

Il Covid-19 è “rinato” grazie ai nostri entusiasmi, alle nostre trasgressioni, ai nostri sospiri estivi e grazie alle gravi pecche di coloro che ci guidano in questa battaglia epocale. Nelle ultime settimane la pandemia si è accanita sempre di più mettendo sempre più in ginocchio il mondo intero, ma noi ci occupiamo, come sempre, del nostro giardinetto. Verrebbe da pensare che non sarebbe così difficile gestire il proprio giardinetto se ci si concentrasse usando la testa, il metodo, la disciplina, la responsabilità, la logica.

Quello che mi è successo cinque giorni fa nella grande Milano merita di essere raccontato perché ha dell’incredibile.

Mercoledì 21 ottobre alle ore 14 sono stata all’ospedale pubblico San Carlo Borromeo per una visita specialistica.

Un ospedale enorme, un’eccellenza insieme al Policlinico, al San Paolo, al Sacco, al Niguarda. Ho parcheggiato l’auto nell’immenso piazzale antistante l’ingresso principale e sono entrata. Ovviamente “abbardata” con mascherina FFP2 e anche con occhiali e guanti, della serie meglio eccedere. Ultimamente, a causa di qualche acciacco, frequento più ospedali e ambulatori che lounge bar o ristoranti, quindi sono prontissima per tutte le procedure anti covid all’ingresso delle strutture sanitarie. Misurazione della febbre, distanziamento, compilazione di modulo in cui si dichiara di non essere entrati in contatto con il virus, ecc…

Ma mercoledì 21 ottobre, mentre tutti i tg, i quotidiani e i gr annunciavano numeri in crescita esponenziale in merito a tamponi, contagi, terapie intensive e decessi, all’ospedale San Carlo di Milano sono entrata libera, inosservata, ignorata, senza alcun controllo.

Avrei potuto avere la febbre a 40 e il Covid-19 come tutti coloro che, come me, entravano e uscivano liberamente da quelle porte scorrevoli calpestando un enorme tappeto fiero del logo “Regione Lombardia”.

Incredula, ho deciso di uscire e di rientrare immortalando la situazione tramite una discreta ripresa video da cellulare. Ho cercato di individuare qualche dispositivo digitale evoluto per la misurazione della temperatura che avrebbe potuto sostituire l’eventuale persona fisica dotata di strumento, ma nulla.

Alla reception due signore con mascherina indossata a metà mi hanno indicato la strada per l’accettazione CUP. Ho pensato che lì mi avrebbero accolta con un check point di controllo e invece nulla.

Una sala piena di pazienti in attesa, per fortuna su sedie distanziate, ma di misurazione della temperatura o di moduli di autocertificazione nemmeno l’ombra. Unica precauzione, una volta entrata in ambulatorio, la distanza di un metro dalla scrivania del medico. Il medico però mi ha visitata su un lettino e lì addio distanza di sicurezza. E se avessi avuto la febbre e il Covid?

Lo scorso agosto ho soggiornato felicemente un mese nella mia amata verde Irpinia. Ricordo di essere entrata in un ristorante dove mi hanno fatto compilare il modulo di autocertificazione con tanto di numero di cellulare per il rintracciamento e, con grande senso di responsabilità e per logica, mi hanno anche misurato la febbre.

Qualcuno mi sa dire come è possibile che nella grande Milano, mentre i media nazionali e regionali informano su DPCM, strette alla movida, mascherine anche all’aperto, ultimatum a piscine e palestre, limitazioni e privazioni a ristoratori e commercianti (quasi sempre rispettosi delle regole), coprifuoco, sanzioni e consigli per come accogliere (o rifiutare) parenti e amici in casa, all’ospedale pubblico San Carlo di Milano si entra e si esce liberamente e potenzialmente in compagnia del Covid-19?

Mentre fuori arrivano le ambulanze e la gente sta ore in coda per il drive in test.

La vita continua, è vero. Faremo i conti con la nostra coscienza se saremo untori e la pagheremo cara se torneremo a casa con la febbre a 40.

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